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Innovazione e sicurezza, ecco il paradigma della ripresa. Parla Alessandro Pansa

Sicurezza e sviluppo, difesa degli asset strategici e libero mercato. La crisi mondiale del coronavirus li fa sembrare ossimori, ma non devono esserlo per forza, spiega in questa intervista esclusiva a Formiche.net Alessandro Pansa, presidente di Sparkle, l’operatore globale del gruppo Tim, già direttore generale del Dis (Dipartimento per l’informazione e la sicurezza) e capo della Polizia: una vita al servizio delle istituzioni. Il prefetto traccia una panoramica della nuova emergenza sicurezza innescata dalla pandemia e invita a non leggere il mondo in bianco e nero. La politica, l’intelligence e le imprese italiane hanno gli anticorpi per prevenire e fronteggiare le minacce senza rinunciare all’innovazione. Da qui si può ripartire per “costruire il nostro futuro”.

Prefetto, dalle scalate ostili alle infiltrazioni delle organizzazioni criminali, il coronavirus pone un’emergenza sicurezza anche in nuovi settori. L’intelligence italiana ha gli anticorpi per farvi fronte?

Già con la riforma del 2007 il mandato dell’intelligence italiana è stato ampliato dai settori tradizionali, quali geopolitica, sicurezza e terrorismo, a un settore più ampio che potremmo definire sistema Paese, che comprende anche i settori industriale, economico e finanziario. Fu una riforma lungimirante, e la crisi lo sta dimostrando.

Quali sono i settori strategici a rischio e come individuarli?

Un lavoro fondamentale è stato fatto lo scorso autunno con la nuova normativa sul Perimetro di sicurezza nazionale cibernetica e ora con il rafforzamento del golden power. Più che i settori, sono le singole materie a richiedere una supervisione: il settore agricolo in sé non è un tema di sicurezza nazionale, ma l’approvvigionamento del grano sì, perché, la storia insegna, quando non c’è il pane iniziano le sommosse popolari. Banche, sanità, agroalimentare, ora i poteri di intervento del governo sono più definiti, senza mettere con ciò a repentaglio i principi generali di mercato e la libera circolazione dei capitali.

Un vecchio detto dice, “se tutto è strategico, nulla è strategico”.

È vero, per questo la normativa interviene sulle singole attività settoriali che, a determinate condizioni, possono mettere in pericolo la salvaguardia degli interessi nazionali. Il sistema oggi è ben ripartito fra diversi poteri. Il governo dà il suo indirizzo e definisce il perimetro, poi c’è un controllo parlamentare del Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, ndr) e un coordinamento tecnico del Dis.

Un settore su cui la crisi ha riacceso i riflettori è quello delle telecomunicazioni. Perché è così importante?

Perché consente di continuare a sviluppare attività economiche, finanziarie e sociali anche in un mondo in quarantena. Oggi, su questo fronte, esistono due tipi di problematiche. Una commerciale: l’innovazione di queste tecnologie procede a passo spedito e chi rimane indietro sconta un prezzo alto. Una geopolitica: è in corso una battaglia globale per il predominio del mercato.

Ce n’è una terza: l’innovazione quasi mai è egualitaria.

Certo, su questo fronte la pandemia ha squarciato un velo. Purtroppo i sistemi di telecomunicazione non sono usufruibili ovunque, e a chiunque. In Italia esistono diverse “zone bianche”, dove per ragioni demografiche e geografiche portare la rete non è economicamente vantaggioso. Va fatto comunque, come sta facendo Tim che gestisce un servizio universale e deve garantirlo anche in quelle aree. Penso anche all’istruzione, che godrà di giga gratuiti forniti sempre dall’operatore nazionale Tim. Si parla molto di smart working e scuola digitale, ma quante famiglie hanno due, tre pc ognuna?

La soluzione?

L’accessibilità ai servizi, sia dal punto di vista della connessione e della disponibilità dei dispositivi che della formazione. Questo è un processo già in corso, che deve andare avanti soprattutto con la rete unica, gestita in maniera professionale e garantendone l’evoluzione continua. Non possiamo permetterci ulteriori ritardi.

Eppure i ritardi ci sono, a partire dalla tecnologia di cui tutti parlano: la rete 5G.

Il 5G è una tecnologia che non ha avuto uno sviluppo omogeneo. Alcuni Paesi, come la Cina, hanno un vantaggio che solo ora e solo in parte viene pareggiato dalle aziende occidentali. In Italia il 5G, almeno per quanto riguarda il gruppo Tim, è in stato avanzato di evoluzione e il completamento della rete nelle aree ad essa assegnate procede. La copertura nazionale, che riguarda anche gli altri operatori, richiede ancora un po’ di tempo.

La tabella di marcia non è facilitata dal dibattito sulla sicurezza, come quello che ha al centro alcune aziende cinesi.

Il problema della sicurezza della tecnologia cinese è prevalentemente di natura commerciale. Cina e Stati Uniti sono impegnati in una battaglia per il controllo del mercato. L’Italia è in mezzo a questa disputa. Si trova all’interno dell’alveo atlantico, e ha una collocazione ben definita che difficilmente può mutare, soprattutto per convinzione piuttosto che per convenienza.

Il governo italiano è intervenuto con il decreto cyber. Il sistema attuale dà garanzie sufficienti?

È stato concepito bene. Si compone di un meccanismo di controllo e di laboratori e centri specialistici per la verifica dell’equipaggiamento. Purtroppo la realizzazione dei Cvcn (Centri di valutazione e certificazione nazionale, ndr) ha subito rallentamenti dovuti all’attuale crisi. Speriamo che non si prolunghino troppo.

Alcuni Paesi, come il Regno Unito, hanno scelto di escludere le aziende cinesi solo dalla parte non-core della rete 5G. È una soluzione sensata?

Anche qui, parliamo anzitutto di una strategia commerciale. Piuttosto che optare per un’apertura o una chiusura parziale, l’Italia ha scelto una terza via: un gate, una porta attraverso cui tutti i fornitori devono passare sottoponendosi ai controlli di sicurezza. Mi sembra una via di mezzo ragionevole: non può essere buttato via tutto, serve un discernimento tecnico.

Sarebbe opportuno pensare a una nuova struttura di intelligence economica a Palazzo Chigi? Un gruppo di esperti che produca analisi di scenario e di impatto, ad esempio.

Il Dis è l’organismo che gestisce attività di sintesi e analisi della raccolta informativa. Ha all’attivo un team di esperti e consulenti che già svolgono questi studi. Quanto alla fase di programmazione, c’è già un organismo fondamentale: il Cisr (Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica, ndr) con a capo il presidente del Consiglio, composto di sei ministri e il direttore del Dis, che a sua volta presiede il Cisr tecnico con i capi di gabinetto dei sei ministeri, aperto a tutte le professionalità che di volta in volta si rendessero necessarie.

È sufficiente? Altri Paesi hanno agenzie dedite all’intelligence economica.

Finora la macchina così disegnata ha dato ottimi risultati. È perfettamente equilibrata nel coinvolgimento dei vari poteri dello Stato. Un’agenzia di intelligence economica avrebbe bisogno di coordinarsi con altre agenzie. Così non faremmo altro che ingigantire la macchina, che già dispone di un ampio ventaglio di competenze. Spesso ci si dimentica che all’interno del Dis non ci sono solo poliziotti o militari, ma anche economisti, tecnici, ingegneri, matematici, analisti, professori universitari. Quindi più che di strumenti di intelligence ci sarebbe bisogno di strumenti operativi per l’esecutivo.

Resta il problema del public procurement. Velocizzare e snellire le procedure burocratiche è presupposto indispensabile per l’innovazione, ma ci sono dei rischi. 

I rischi sono molteplici, così come le soluzioni. Il nostro Paese è stato segnato da gravissime infiltrazioni del sistema economico e produttivo da parte di organizzazioni criminali, oggi il fenomeno corruttivo è tutt’altro che marginale. La velocizzazione delle procedure è indispensabile. Ci sono esempi virtuosi, come quello di Expo 2015 a Milano, dove è stata messa in piedi una rete di controlli per la realizzazione di opere in tempi brevissimi. Che si tratti di una gara o di una procedura negoziata, è fondamentale che i requisiti di sicurezza e le responsabilità di chi deve accertare siano decisi preliminarmente.

A proposito, il Copasir ha lanciato un allarme per il Sud. La crisi rischia di ravvivare focolai di tensione, e c’è chi è pronto a cavalcarli.

È un problema fondamentale. La criminalità organizzata al Sud ha sempre basato la sua capacità sul consenso popolare. Fino a pochi anni fa in Sicilia e Calabria non si poteva parlare di mafia, oggi ci sono manifestazioni pubbliche di condanna. La parte più disagiata della popolazione ha capito che la mafia vuole solo sfruttarla. La crisi economica in arrivo però rischia di ricostruire un terreno fertile. Chiunque sia in grado di alleviare il disagio conquisterà consenso. Non solo fra le realtà imprenditoriali, ma anche alle urne. In Campania esiste un vecchio proverbio: “A cchì te da o pàne l’hai chiammà patet (chi ti dà il pane, lo devi chiamare padre).

L’emergenza sanitaria drena risorse e attenzioni del governo. C’è chi ritiene opportuna l’istituzione di un’autorità delegata per seguire più da vicino questi  dossier sensibili come il 5G e le azioni ostili sui mercati.

Tutti questi dossier sono collegati. Solo una regia complessiva può supervisionarli, e Palazzo Chigi è il luogo giusto per farlo. Quando si creano nuove entità, il rischio è che divengano auto-referenziali e aggiungano complessità. Questo rischio non c’è con la presidenza del Consiglio, che peraltro è sottoposta anche al sindacato parlamentare.

Quale road map immagina per uscire dalla crisi sanitaria ed economica e che ruolo può giocare l’innovazione?

In primo luogo ritengo che i tempi saranno condizionati dalle valutazioni epidemiologiche, che offriranno elementi di supporto sostanziali alle decisioni che il governo adotterà. Servirà un’analisi tecnica, accettando anche dei contenuti rischi sanitari per non compromettere del tutto il sistema produttivo del Paese, ma in ballo ci sarà sempre l’esigenza primaria della salute pubblica. Certo l’innovazione sarà determinante e non perché potrà funzionare da acceleratore della ripresa, ma perché rappresenterà il nuovo piano su cui costruire il nostro futuro.

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