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La fine del bluff

E così, il grande bluff si è disciolto, come neve al primo sole di primavera. Il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, nella sua conferenza stampa di venerdì 10, aveva pubblicamente e risolutamente annunciato alla nazione che non avrebbe fatto ricorso al Meccanismo Europeo di Stabilità, allineandosi alla posizione pregiudizialmente e strumentalmente avversa di Lega, Fratelli d’Italia e parte del M5S. Trattandosi di 2 punti percentuali del PIL Italiano, circa 37 miliardi, per reperire i quali sul mercato sarebbe (anzi: sarà!) comunque necessario indebitarsi sui mercati finanziari (due punti di PIL il cui costo potrebbe azzerarsi, soprattutto se effettivamente la BCE farà scattare le Outright Monetary Transactions, teoricamente previste per acquistare quel debito), era preoccupante che il Presidente del Consiglio si impegnasse a non farvi ricorso, segnalando di fatto l’esistenza di una nuova maggioranza al governo del paese: appunto Lega, FI, parte del M5S. O, forse ancora peggio, che il governo fosse sotto scacco di una parte (presumibilmente minoritaria) del M5S. Una posizione grave. Che Conte, infatti, ieri si è disinvoltamente rimangiato, annunciando che il ricorso al MES dipenderà da un’attenta valutazione della condizionalità.

Finalmente, un discorso di buon senso. E sul quale vale la pena ricapitolare la situazione attuale.

I 240 miliardi messi a disposizione dal MES per affrontare l’emergenza non sono obbligatori. Se ne può richiedere l’attivazione o meno. Ed il meccanismo di funzionamento del MES fornisce a tre paesi (Francia, Germania e Italia) il diritto di veto su qualsiasi decisione importante (come l’erogazione di prestiti); quindi anche quella di concedere queste risorse a qualche paese. Tradotto: l’Italia non solo può decidere di non accedere al prestito del MES, ma può anche impedire che altri vi facciano ricorso.

Secondo punto, più delicato: la condizionalità. Il MES è stato istituito nel 2012 per agevolare (essendo più flessibile, ma anche meno trasparente, in quanto fuori dalla normativa dell’Unione Europea) l’accesso al credito di paesi in difficoltà nel reperire fondi sui mercati finanziari. I prestiti che eroga sono obbligazioni in solido: se un paese non paga le sue rate i soldi ce li mettono tutti gli altri. Ragione per la quale, ad esempio, Fitch valuta le sue emissioni con un rating ‘tripla A’, il massimo delle garanzie.

A fronte di questa solidarietà per il sostegno finanziario in emergenza, il MES chiede delle condizioni; quelle ricette ‘lacrime e sangue’ che ha chiesto alla Grecia e che conosciamo tutti: in sostanza riduzione della spesa pubblica (da declinare in vari modi e settori). La Grecia è l’ultimo paese ad aver sistemato i conti col MES, ormai già dall’agosto 2018.

In vista della cessazione della sua funzione come meccanismo per fronteggiare un’emergenza finanziaria, già nel dicembre 2017 la Commissione aveva proposto di riportare il MES nell’ambito della legislazione europea, modificandone parzialmente la natura a fini di stabilizzazione e garanzia dell’Unione Bancaria. Alla fine del 2018, recependo questo mutato contesto, è partito un negoziato per la riforma del MES per aprirlo almeno a diventare fondo per la risoluzione dei fallimenti bancari, un’assicurazione europea che sollevi i cittadini/contribuenti degli Stati con una banca in fallimento dal dover pagare di tasca propria il salvataggio (cosa che a noi italiani, in particolare, anche se in buona compagnia di altri paesi, dovrebbe sembrare fantastica, ricordando quanto ci siano costati i salvataggi bancari negli ultimi anni).

Adesso, di fronte all’emergenza, l’Eurogruppo ha fatto un ulteriore passo avanti, proponendo di utilizzare metà del capitale prestabile del MES (che è al massimo pari a 500 miliardi) per un uso completamente diverso: fronteggiare l’emergenza sanitaria, sotto vari aspetti. Chiedendo come unica condizione che sia rispettata la destinazione dei fondi a questo scopo.

Quello che è ancora da definire è se, dopo qualche anno, questi fondi verranno comunque conteggiati ai fini dei parametri di valutazione del rischio-paese. In questo caso, avrebbero ragione coloro che invocano prudenza, perché probabilmente per risparmiare 700 milioni di interessi sui 37 miliardi di prestito, rischieremmo di trovarci messi ancora peggio domani come parametri fiscali; il che ci potrebbe costare anche molto di più.

Ma tre osservazioni si impongono. La prima: su queste regole di condizionalità, così come la possibilità che la BCE copra questi fondi con le Outright Monetary Transactions (che di fatto azzererebbero il costo fiscale dell’operazione), ancora non è stata presa una decisione definitiva, che quindi è ancora negoziabile. La seconda: ricordo che l’Italia ha la possibilità di esercitare il diritto di veto su qualsiasi decisione di questa natura; ossia, in negativo, ha la facoltà di mantenere il MES nella sua funzione e configurazione attuale. La terza e più importante: in questi giorni il resto d’Europa, invece che litigare su posizioni pregiudiziali e lanciate a scopo puramente politico/elettorale, sta negoziando su tutta una serie di strumenti ed organismi da attivare al più presto per agevolare la ripresa economica post-Covid19 (bilancio e ruolo della Commissione, della della Bei, del MES), mentre la BCE continua nella sua funzione di comprare tempo perché i governi finalmente si muovano. Questa, nel suo complesso, è la grande partita sulla quale discutere.

Ha fatto bene quindi il premier ad abbandonare l’inspiegabile posizione intransigente contraria al MES ed iniziare un percorso di riequilibrio (in direzione di una maggiore serietà) del messaggio politico. Così come farà bene a muovere la diplomazia per portare a casa un risultato che ci consenta di accedere a tutti gli strumenti che verranno messi a disposizione per la ripresa dall’Europa, nelle sue varie forme. La partita che si sta giocando in questi giorni ha dimensioni storiche senza precedenti; il chiacchericcio politico nostrano non ci fa onore.


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