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Giallo nucleare. Test segreti nello Xinjiang in Cina? I sospetti Usa

La Cina sta conducendo di nascosto test nucleari? È la domanda che si pone il Wall Street Journal, che riporta un nuovo rapporto del Dipartimento di Stato americano in cui viene espressa preoccupazione per la ripresa di test nel 2019, in aperta violazione degli accordi internazionali sul disarmo e la non proliferazione, nel sito di Lop Nur, area desertica nella regione autonoma dello Xinjiang.

Secondo i funzionari del Dipartimento di Mike Pompeo Pechino avrebbe mantenuto in questi mesi “un alto livello di attività nell’area a Nord-Ovest, ordinandone più volte lo sgombero e facendo ricorso a camere di contenimento esplosivo.

L’articolo del Wsj non riporta prove, ma si limita a riferire indiscrezioni del circuito diplomatico statunitense da cui sarebbe filtrato in queste settimane il timore che il governo cinese, approfittando della distrazione globale dovuta alla crisi del coronavirus, possa accelerare l’attività dei test nella regione, balzata agli onori delle cronache nell’ultimo anno perché abitata dagli uiguri, popolazione turcofona e musulmana sottoposta a un regime di sorveglianza e internamento.

Fra gli indizi riferiti dal Dipartimento di Stato, l’accusa a Pechino di aver bloccato la trasmissione di dati dai sensori collegati al centro di monitoraggio internazionale. Accusa che, per ora, non ha trovato riscontro nell’organismo internazionale preposto, il Cbtbo (Comprehensive Test Ban Treaty Organization), riporta il Guardian.

Il trattato che ha dato vita all’organismo di controllo, il Ctbt, è stato firmato da Cina e Usa nel 1996 ma mai ratificato, e dunque non è vincolante. Se lo fosse, i due Paesi potrebbero chiedere di condurre controlli sui siti sospetti, come quello di Lop Nur.

Dalla Cina non si è fatta attendere una secca smentita. Prima del portavoce del ministero degli Esteri, Zhao Lijian. “La Cina ha sempre adottato un comportamento responsabile, rispettando gli obblighi internazionali e le promesse fatte. Le accuse degli Usa sono prive di fondamento e non meritano una smentita”. Ha fatto seguito il Global Times, megafono inglese del Partito comunista cinese (Pcc), che con il solito stile provocatorio parla di “accuse buttate nel cestino”.

L’episodio ha creato un nuovo caso diplomatico fra la Casa Bianca e la Città Proibita. L’ennesimo, in un clima già teso per le reciproche accuse sull’origine del virus e le responsabilità nella sua diffusione. Questo mercoledì il segretario di Stato Pompeo in un’intervista a Fox News è ritornato sul tema: “Sappiamo che questo virus ha avuto origine a Wuhan, in Cina, e che l’Istituto di virologia si trova a una manciata di miglia dal mercato ittico. Abbiamo davvero bisogno che il governo cinese si apra e aiuti a spiegare esattamente come
si è diffuso il virus”. Lo stesso presidente Donald Trump si è spinto oltre, tornando a ventilare la possibilità che il virus sia stato creato in un laboratorio cinese.

Quanto alla diffusione e alle tempistiche comunicate dal governo cinese, una novità emerge dal lavoro di Reuters, che ha ricostruito una mappa interattiva con tutte le province cinesi colpite dal virus. Due i risultati della ricerca. Primo: a dispetto dei dati ufficiali, il virus non è ristretto a Wuhan e alla regione dell’Hubei. Secondo: quando il 20 gennaio Pechino ha riconosciuto la diffusione fra esseri umani del Covid-19 e il 23, tre giorni dopo, ha messo sotto chiave Wuhan, “il coronavirus aveva già preso piede in 25 aree del Paese”.

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