“Barack Obama è il leader democratico più importante, ed è evidente che l’endorsement a Joe Biden, suo ex vicepresidente per otto anni, arrivi come una spinta forte per ricompattare l’elettorato Dem”. In una conversazione con Formiche.net, Antonio Funiciello – ex capo dello staff del presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, giornalista, scrittore, in libreria per Rizzoli con “Il metodo Machiavelli. Il leader e i suoi consiglieri: come servire il potere e salvarsi l’anima“, disegna la traiettoria dell’America che uscirà dal coronavirus con un nuovo presidente.
La mossa di Obama arriva dopo che l’ex presidente è stato considerato il motore from behind della rimonta di Biden. Il leftist Bernie Sanders era in vantaggio momentaneo, ma il Super Tuesday ha risvegliato “Sleepy Joe”, Joe l’addormentato come lo chiama il presidente Donald Trump. Dopo il successo schiacciante nel rally elettorale – che si è svolto in contemporanea il 3 marzo in 14 Stati – tutti i candidati Democratici gli hanno fornito appoggio. Via via fino allo stesso Sanders, che ha dichiarato il sostegno a Biden negli ultimi giorni.
I retroscena nei media americani la descrivono come una grande operazione politica Made in Obama, che ha portato tutti verso il suo ex VP, amico, successore. “A Obama va dato atto di essere stato in grado di tenere insieme tutto l’elettorato democratico per otto anni, e soprattutto la rielezione è stata un successo in cui ha mostrato grosse capacità, se si considera che ha rivinto perdendo 4 milioni di voti”, spiega Funiciello. “Però – continua – c’è un aspetto che non possiamo sottovalutare: quando gli americani votano, vogliono scegliere chi comanda. Per questo l’ombra di Obama dietro a Biden può essere un problema in generale, perché in America, dal presidente al sindaco, si sceglie sempre e solo chi comanda. Avere ombra alle spalle può dare agli elettori l’impressione di essere eterodiretti. E in generale questo non piace”.
Mentre come presidente è stato in grado di far convergere su di sé i consensi, parte delle divisioni che vediamo tra i Dem in questo momento sono anche frutto dell’esperienza obamiana. “Il Partito Democratico è molto lacerato, e – aggiunge Funiciello, cultore della politica americana – non c’è dubbio che le lacerazioni ruotino attorno a due fattori in cui Obama è protagonista: la sua storia da presidente, le sue azioni politiche; e poi la sua gestione del partito, quella che ha svolto con il blocco storico, ossia insieme a Biden, ai Clintons, a Nancy Pelosi“.
Su queste lacerazioni un peso ce l’ha anche l’Obama come personaggio storico, ossia quello che Funiciello definisce l'”obamismo”, ciò che resta al Paese di quegli otto anni di presidenza. “In effetti l’azione di Obama è stata buona sul piano della politica interna, non c’è dubbio che abbia preso un Paese in crisi e sia stato in grado di risollevarlo producendo effetti duraturi, ma le sue policy hanno avuto un impatto disomogeneo. Da qui viene da chiedersi se la legacy sia stata del tutto positiva o negativa: se guardiamo al Midwest, da dove passa la vittoria elettorale, certamente non è per niente positiva”.
Occorre valutare il ruolo di Obama sulla scena politica generale, già estremamente polarizzata tra Democratici e Repubblicani, e un presidente come Trump che ha costruito molto delle sue dinamiche politiche contro il suo predecessore. “Certamente Obama non è un elemento depolarizzante, e in questo Trump potrebbe avere ulteriori spazi contro Biden. Obama è stato un fattore della polarizzazione, non un agente diretto, ma non c’è dubbio che il processo già avviato con Bush figlio durante la Guerra d’Iraq (questi passaggi avvengono spesso per faccende di politica estera) abbia avuto negli anni obamiani i picchi della tensione”.
La Guerra d’Iraq è uno di quei passaggi della storia americana che potrebbe aver segnato, almeno in modo visibile, un’inversione di tendenza. Se prima gli Stati Uniti erano un attore globale, imperiale, presente in modo costante e pesante su tutti i dossier internazionali, con Obama – per effetto anche del prolungarsi della guerra irachena (e quella afgana) e del peso sociale e psicologico che produceva sui cittadini – si è iniziato a intravvedere qualcosa di diverso. La traiettoria di disingaggio iniziata su grandi dossier della politica internazionale, e il coinvolgimento in altri (il “Pivot to Asia”, la Cina), è stato poi seguito – con metodi e forme diverse – da Trump.
“Non sono molto fantasioso da inventare nuove categorie, lo chiamo direttamente isolazionismo. Ce ne sono state diverse di fasi del genere nella storia americana, e solitamente sono state sempre iniziate da un repubblicano: quella attuale è infatti un’anomalia, perché l’ha avviata (almeno dal punto di vista più formale) un democratico (Obama appunto)”. Secondo Funiciello non è facile prevedere grosse discontinuità sulla traiettoria che gli Usa di Biden potrebbero seguire su certi grandi dossier, come il rapporto con l’Europa (il distacco nelle relazioni transatlantiche), la Cina (il coinvolgimento duro nel confronto con Pechino), il Medio Oriente (una direzione da remoto nell’ottica del disingaggio). “Biden non credo che possa annunciare granché sull’argomento, anche perché sono temi senza troppo appeal, soprattuto in questa fase”.
Il riferimento è alla crisi prodotta dalla diffusione del coronavirus negli Stati Uniti, che sono il Paese più colpito sia in termini di contagi che di morti. “A novembre, quando si voterà, l’effetto dell’epidemia sarà ancora forte nella mente degli americani, sebbene ancora non riesca a farne una valutazione sull’impatto: c’è una diffusione disomogenea da Stato a Stato, e non è facile capirne la successiva connessione”.
Un virus, un fattore esogeno, che invita tutti a stare a in casa e i Paesi a chiudere i propri confini. Un rafforzamento di quella traiettoria “isolazionista” di cui abbiamo parlato? “Certamente sì, almeno dal punto di vista apparente. Perché credo che dopo i primi sei mesi, qualsiasi sia il presidente, Biden o Trump, potrebbe trovarsi davanti la necessità di inventarsi qualcosa. Attenzione, parlo di necessità, che è spesso diversa dalla volontà politica di base. Ma tant’é”.
Ieri un op-ed co-firmato per The Hill da James Jay Carafano, vice presidente della Heritage Foundation, e Ian Brzezinski, senior fellow dello Scowcroft Center dell’Atlantic Council parlava della necessità di una partnership speciale tra Usa e Ue per rilanciarsi dopo la pandemia. Fred Kempe – il direttore dell’AC, piuttosto critico nei confronti della lesione dei rapporti transatlantici prodotta da Trump anche durante la pandemia – l’ha condiviso su Twitter definendolo “la migliore idea per ricaricare i motori transatlantici post-Covid-19”
“Sì è possibile che l’emergenza sociale ed economica potrebbe essere l’elemento che per la prima volta dopo diversi anni devii quella traiettoria – conclude Funiciello -. Gli Usa potrebbero avere necessità di recuperare terreno su spazi di carattere politico, geopolitico, d’influenza, e questa necessità, come detto già, anche cambiare momentaneamente quella che comunque credo resterà la base della direzione politica americana nel futuro”.