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La pandemia e il cambio d’epoca. La riflessione di don Massimo Naro

Durante la giornata mondiale del libro, celebratasi nella scorsa settimana, lo scrittore Diego De Silva ha fatto notare che, dopo la pandemia, la letteratura non potrà più concedersi il lusso d’essere assertiva. È un’osservazione efficace per dire che il Coronavirus sta contribuendo molto a quel cambio d’epoca di cui oggi molti discutono sulla scia di Papa Francesco, che per primo ne ha parlato e continua a parlarne con insistenza.

Il cambiamento, in questa prospettiva, si getterebbe definitivamente alle spalle la modernità, intesa quale epoca connotata dalla tendenza a identificare l’evidenza con la certezza. Non a caso se ne può indicare la nascita con l’icastica espressione di Cartesio: “Cogito ergo sum”, imperniata appunto su un’evidenza (il fatto che l’essere umano è capace di pensare, di esercitare la ragione), da cui deriva una certezza (il fatto di esistere, di esserci effettivamente). Non sto qui ad argomentare i motivi filosofici di quest’interpretazione del detto cartesiano, forse un po’ troppo sbrigativa. Del resto, la frase di Cartesio, pur sancendo una forte discontinuità con il medioevo, gli rimaneva ancora abbarbicata, se non altro perché a suo modo suonava – per giunta in latino – come una sorta di prova ontologica, anche se ormai incurvata, volta cioè a dimostrare non più l’esistenza di Dio bensì quella dell’io umano. La novità si sarebbe comunque imposta ben presto sulla continuità col passato, sviluppandosi nell’epoca dei lumi e così oltrepassando l’autunno del medioevo – per citare la suggestiva definizione dei secoli XIV e XV data da Johan Huizinga cent’anni fa –, magnificamente illustrato da Lorenzo de’ Medici in un verso, anch’esso famoso, della sua Canzone di Bacco: “Di doman non v’è certezza”.

Proprio della certezza sembra voler fare piazza pulita il cambio d’epoca a cui stiamo assistendo. Che, quindi, in qualche misura si va presentando come un ritorno all’incertezza. Stavolta, però, non si tratta dell’incertezza irrazionale attribuita, con marcato pregiudizio, al medioevo. Trattasi, semmai, dell’incertezza della ragione e, in particolare, della ragione scientifica.

In verità, ci eravamo abituati a reputare come presunte molte delle nostre odierne certezze. Per esempio – tanto per attingere all’esperienza comune e al serbatoio della cronaca –, la cosiddetta certezza del diritto, tante volte smentita nelle aule dei tribunali. Solamente i saperi scientifici erano rimasti indenni da ogni dubbio, sponsorizzati presso l’opinione pubblica dalla divulgazione mediatica. Le scienze dure, come si suole dire, erano le uniche a registrare delle ben precise evidenze e a ricavarne delle ipotesi che, proprio in quanto suffragate da quelle evidenze probatorie (“evidence”, nella lingua inglese, che è la koiné delle scienze moderne, sta per “prova”), si traducevano quasi automaticamente, almeno nell’immaginario generale, in certezze utili per la nostra vita d’ogni giorno. Ora, invece, il Covid-19 ha innescato un cortocircuito tra evidenza e certezza, non solo in mezzo alla gente, ma anche tra gli scienziati: persino loro – mischiando, nei salotti televisivi di cui sono ormai ospiti fissi, il cipiglio deciso degli esperti e la nonchalance ammiccante delle star – finiscono per ammettere che, nonostante le evidenze, si può credere questa cosa o quell’altra cosa del tutto contraria alla prima.

Potrebbe essere il segno di un pur legittimo conflitto delle interpretazioni, di un confronto critico tra differenti scuole di pensiero. Ma in tv o sui periodici specializzati s’incontrano sempre più spesso scienziati che di fronte alle evidenze s’accontentano di dire vagamente “credo”. Insomma, si confondono – dentro i limiti della ragione scientifica – evidenza e credenza, ma emerge il contrasto tra evidenza e certezza.

Tale contrasto mi pare l’indizio che palesa il cambiamento d’epoca al tempo della pandemia, di nuovo nell’intreccio tra continuità e discontinuità: difatti, già Nicolò Cusano, in pieno Quattrocento, quando ancora si poteva essere insieme filosofo e giurista, teologo e astronomo, umanista e matematico, aveva parlato di una “docta ignorantia”, per dire che la conoscenza si acquisisce in virtù del fatto che si sa di non sapere. Criterio, questo, che aveva aiutato anche i teologi medievali a formulare il loro discorso su Dio tramite l’analogia, ossia tenendo presente che potevano parlare di Dio facendo leva sulla somiglianza ch’essi ravvisavano – alla luce del messaggio biblico – tra il Creatore e le sue creature, ma senza dimenticare che rimaneva una ancor più grande dissomiglianza in virtù della quale tapparsi infine la bocca, come il buon Giobbe.

Davvero l’evidenza non equivale alla certezza. Ci può essere certezza infallibile anche quando tutto resta inevidente: lo appresero, a poco a poco, i discepoli del Maestro di Nazaret. E l’incertezza può essere l’elemento epistemico da rintracciare ed eventualmente da reinnestare nello statuto fondamentale di ogni tipo di sapere, anche di quello scientifico.

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