Chi si occupa di relazioni internazionali dall’inizio si pone una domanda di fondo: in uno Stato, le politiche estere incidono più su quelle interne o piuttosto il contrario ?
Il brutto (ma anche il bello) delle scienze sociali è che esse non si affidano a leggi che possano spiegare esattamente gli avvenimenti, ma a teorie che ci aiutano a comprenderli.
Non esistono teorie vere o false, ma semmai migliori o peggiori a seconda di quanto ci aiutano a vedere più a fondo gli avvenimenti osservati, un po’ come fanno certi occhiali da vista che ci aiutano a leggere meglio di altri. E come accade anche con gli occhiali e i cali di vista, il ricercatore nell’arco della sua vita cambia le sue teorie, a seconda degli studi che intraprende, o semplicemente delle stagioni della vita.
Rispetto alla domanda posta qui in apertura chi scrive, pur occupandosi di questioni internazionali, è convinto che oggi (non è sempre stato cosi) le questioni interne abbiano spesso (ovvio, con le dovute eccezioni) una prevalenza su quelle di politica estera.
La prima spiegazione di questo è che le politiche dello Stato (non solo quelle estere) sono sempre più in mano ad attori decisionali selezionati attraverso processi elettorali interni.
Con la massificazione della politica avvenuta solo nell’ultimo secolo, per l’attore decisionale è sempre più importante ottenere il consenso dell’opinione pubblica.
Naturale quindi che l’attore decisionale in politica estera si muova con un occhio nell’ordine: prima alla sua opinione pubblica interna (in particolare a quella che lo sostiene), poi all’interesse puro dello Stato; infine al compromesso possibile da ottenere.
Il corto-circuito nasce quando questo va comunicato e giustificato davanti all’opinione pubblica di riferimento. Ebbene, non vi è oggi politica più difficile da comunicare a una platea di massa di quella estera, nata molto prima dello Stato democratico-liberale e per definizione elitaria, iper-razionale, brutale, segreta.
Una scorciatoia utilizzata spesso per sdoganare scelte ma anche critiche in politica estera è quella di utilizzare categorie morali personali, ovvero descrivere decisioni di uno Stato come se si trattasse di un individuo, con i suoi pregi e difetti caratteriali.
Lo abbiamo visto in questi giorni trattando degli Aiuti di Stato Internazionali (in particolare di quelli russi e cinesi). Invece di comprenderne i motivi (geo)politici, i commentatori si sono divisi tra buonisti e cattivisti, secondo schemi già visti e ricadendo in posizioni pre-costituite.
Tuttavia, nel caso degli aiuti per il post-Covid, e in particolare del doloroso dibattito sul Mes, la personalizzazione moralistica della politica estera sembra uscita di controllo e ha toccato punte bel oltre l’usuale limite fisiologico.
I giudizi sulla politica estera tedesca ed olandese – che per inciso nella vicenda sembrano avere interpretato bene il ruolo di poliziotto buono e cattivo a difesa del loro interesse nazionale – sono stati francamente imbarazzanti. Più consoni a una discussione tra nemici al bar che ad opinionisti nazionali di vicende internazionali.
In particolare nel mirino sono stati messi gli olandesi, come popolo, con generalizzazioni che definire razziste è poco. Nei più è maturata l’idea, fomentata dalla politica e dai media, che i Paesi Bassi siano popolati in larga parte da persone insensibili, ciniche, egoiste, ottuse – in ultima istanza cattive.
Poco si è fatto per comprendere razionalmente (si badi, non per giustificare) il perché della rigidità della politica estera tedesco-olandese e semmai provare ad allestire dei rimedi, senza alzare i toni (ricordiamoci che non siamo in un una posizione di forza per potere sbattere i pugni sul tavolo).
Quasi nessuno ci ha spiegato che gli “insensibili” popoli del Nord Europa hanno il timore (lo avremmo avuto anche noi al posto loro, a posizioni invertite) – che con eventuali Eurobond (ovvero, una redistribuzione uguale dei debito legato al Covid-19), essi si accollino anche spese di patologie croniche nostrane come – per citarne alcune – Alitalia, Ilva, stipendi e pensioni d’oro, privilegi corporativi, una burocrazia immensa ed inefficace (quando non corrotta) che scialacqua risorse.
La questione è che la politica estera nostrana e i media a seguito, invece di puntare solo sul nostro vittimismo oramai stereotipato oltreconfine, non si è sforzata di mostrare in Europa la nostra disponibilità a fare per davvero quelle riforme (in primis legate alla spesa pubblica) ventilate in passato dopo ogni emergenza, dai terremoti ai migranti, ma mai affrontate sul serio.
Piuttosto che accusare i Paesi del Nord di cattiveria nel momento in cui guardano ai propri interessi nazionali. forse era meglio negoziare con i partner europei (preparando all’evenienza anche la nostra pubblica opinione) una spending review seria degli sprechi italiani, anche senza la minaccia della pistola alla tempia della Troika.
Avremmo conciliato una priorità di politica interna con una di politica estera. In un paese dove ancora si pagano le accise per la guerra in Abissinia, questa volta per uscire dalla crisi del Covid non basterà aumentare costi di benzina e sigarette. Lasciando ancora una volta immutato il resto.