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Educare alla prevenzione del contagio. I consigli della prof. Graffigna (Cattolica)

In un momento di crisi come quello che stiamo vivendo, tutti dobbiamo cercare di fare qualcosa nel nostro piccolo, come lo stare in casa e cercare di essere ben informati e consapevoli per capire davvero cosa accade. Al di la dell’emergenza, già da alcuni anni si parla di engagement in sanità ed ora ancora di più la tematica sta destando un particolare interesse. Alessia Amore, avvocato e bioeticista ne ha parlato con Guendalina Graffigna, Professore Ordinario – Dipartimento di Psicologia e Direttore dell’EngageMinds Hub dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

Professoressa, con il termine patient engagement ci si riferisce letteralmente ad un paziente ingaggiato. Significa che è messo nelle condizioni di essere consapevole sul proprio stato, sul proprio percorso di cura e dunque più partecipe. Può spiegarci meglio questo concetto calandolo nella realtà odierna, purtroppo segnata da una crisi sanitaria?

L’epidemia del coronavirus sta generando grande attenzione ed allarme. Si tratta di un importante banco di prova. Per la scienza, in una lotta contro il tempo per combattere il virus. Per il sistema sanitario, che deve far fronte alla diffusione del contagio. Per la politica, chiamata ad atti di responsabilità. Ma anche e soprattutto per tutti noi cittadini. Da anni ormai si parla della necessità di rendere i cittadini-pazienti più protagonisti nella gestione della loro salute (tecnicamente “patient engagement”). Ebbene, la diffusione del 2019-nCoV ci sta – drammaticamente e urgentemente – dando l’occasione per mettere in pratica questo principio. Diventare “engaged” vuol dire sentirsi parte in causa del sistema sanitario e capire che ogni nostra azione non solo ha un impatto sulla salute individuale, bensì anche su quella collettiva e sull’efficienza (o al contrario il collasso) del sistema sanitario.

Cosa significa essere consapevoli di cosa accade quindi “engaged”?

Oggi più che mai siamo chiamati a dimostrare il nostro “engagement” impegnandoci a comprendere le informazioni in modo attento e razionale (senza farsi traviare da fake news giornalistiche); mettendo in atto i comportamenti preventivi indicati dal ministero della Salute; ponendo fiducia nella scienza ed evitando di improvvisarci in pericolose congetture. Ma soprattutto in queste ore ci spetta un’altra prova: imparare a conoscere e gestire le nostre preoccupazioni. Mentre i media impazzano enfatizzando la drammaticità delle notizie sul 2019-nCoV restare lucidi è difficile. Tuttavia è l’unica cosa che ognuno di noi deve e può fare.

Avete portato avanti uno Studio relativo ai livelli di engagement sulla popolazione italiana. Cosa è emerso?

Sì, in una recente ricerca condotta dal Centro EngageMinds HUB dell’Università Cattolica abbiamo misurato i livelli di engagement degli Italiani e visto la correlazione di questo parametro con l’aderenza alle misure preventive per contenere il rischio di contagio: il dato è allarmante. Solo il 16% della popolazione italiana è davvero “engaged” e questo si rispecchia in migliori comportamenti preventivi e migliore sinergia con il sistema sanitario e gli operatori. Questo dato deve far riflettere, ma non solo i cittadini. Soprattutto le istituzioni perché significa che sono necessarie iniziative di educazione ed accompagnamento rivolte alla popolazione per aiutarla a diventare più efficace nella prevenzione del contagio.

Questo blocco forzato in casa può cambiare le nostre abitudini in bene o in peggio.

La pandemia da Covid-19 ci sta mettendo a dura prova: come sistema Paese, come cittadini, come esseri umani. Questa prova, più o meno duratura, rischia di avere importanti ricadute non solo per la salute della popolazione, ma anche per l’economia del nostro Paese e delle nostre famiglie. Speriamo però che questa occasione si configuri anche come un’“esperienza trasformativa”, cioè una crisi evolutiva che ci porti a ridimensionare il nostro modo di vivere e a rivedere la nostra scala valoriale. Un’occasione per fermarsi dal turbine della vita moderna e riflettere sull’importanza della salute e su quanto essa dipenda (anche) dalle nostre condotte. Il blocco forzato a casa, in cui molti di noi si trovano, impone una nuova lentezza che ci può permettere di guardarci dentro, di riflettere e di riprogrammarci.

Fino a poco tempo fa nessuno pensava alla possibilità di una pandemia. Quando va tutto “normalmente” bene non ci si accorge del valore che si ha.

Quando ci si sente “sani”, ci si crede invulnerabili, e soprattutto poco interessati ad approfondire tematiche sanitarie. Questo porta spesso a noncuranza, disattenzione, disimpegno circa tutte quelle norme basiche di prevenzione che, sebbene in una società evoluta come la nostra siano per lo più note (ad esempio, il lavarsi bene le mani, mettersi il gomito davanti quando si starnutisce…) spesso vengono trascurate. Ebbene: oggi, nel mezzo di questa drammatica crisi sanitaria tutti noi siamo obbligati a focalizzare il nostro pensiero sulla salute e sulla paura di perderla. E le prescrizioni preventive di base, che sono incessantemente ripetute dai canali informativi ufficiali, costituiscono il ritornello che accompagna le nostre giornate. Chi si occupa di educazione alla salute sa che l’ostacolo maggiore al raggiungimento di un obiettivo preventivo è proprio convincere le persone a cambiare mentalità. Cioè, far maturare consapevolezza circa i rischi per la salute e convincere gli individui del fatto che comportamenti scorretti possono aumentarli. Il punto quindi è che non è sufficiente imporre le regole: bisogna anche offrire alle persone le conoscenze e gli strumenti (informativi, pragmatici e motivazionali) per metterle in pratica.

Che impatti ha, in generale, sul sistema sanitario il patient engagement?

Ha un impatto fondamentale. Oggi non è solo questione di patient engagement ma più che altro di health engagement cioè di engagement verso la salute di tutta la popolazione. Avere dei cittadini ingaggiati vuol dire avere delle persone in grado di capire bene qual è il razionale che giustifica le misure di contenimento adottate e che quindi diventano maggiormente consapevoli del loro ruolo nella salute privata e collettiva, dunque più aderenti. Penso che questo periodo sia molto importante. Potrebbe essere un’occasione per poter rendere tutti noi più coinvolti nella gestione della salute. L’engagement oggi, a partire dalla cronicità e dai nostri numerosi studi che hanno dimostrato come il paziente più ingaggiato dimostra essere più aderente alla sua terapia, si rivela strategico soprattutto per la prevenzione primaria quindi per limitare il contagio riducendo le esposizioni a rischio, come risulta anche dalla ricerca recente condotta dal Centro di Ricerca EngageMinds HUB, svolta nelle prime settimane dell’emergenza, che citavo prima.

Pensa che in Italia ci sia un buon livello di engagement rispetto agli altri Paesi?

Ci sono alcune componenti per le quali si può sostenere che siamo tutti alla pari. Le componenti psicologiche, emotive/emozionali, misure determinanti per misurare i livelli di engagement e che riguardano il modo di reagire, nel caso specifico, dinanzi ad una emergenza, sono infatti trasversali ai vari Paesi. Per quanto riguarda la parte strutturale penso, invece, ci siano delle differenze culturali che derivano dalla sensibilizzazione ed educazione, più o meno accentuata, alla salute. Ci sono Paesi in cui sono presenti numerose iniziative finalizzate a comunicare l’importanza della prevenzione in generale o aventi ad oggetto tematiche di salute pubblica. Questo porta ad avere una popolazione sicuramente più preparata e più predisposta al coinvolgimento attivo. In aggiunta, segnalerei il fatto che alcune società sono più individualiste rispetto ad altre, il che significa che le stesse possono essere diversamente predisposte a realizzare il bene della collettività in aggiunta al proprio bene. Il punto è che in questo momento siamo tutti chiamati ad essere più altruisti e più attenti al bene comune, oltre a quello individuale.

Cosa manca a livello centrale e regionale per coinvolgere di più la persona? Su quali progettualità si dovrebbe puntare?

Quello che in Italia sta proprio mancando è un approccio sistematico di sensibilizzazione alla salute pubblica. È chiaro che nelle prime settimane di emergenza le priorità erano altre però in questo momento, a ridosso di una fase 2 e di una probabile fase 3, più che mai la tenuta anche psicologica della popolazione e la determinazione a rimanere aderenti è un obbiettivo fondamentale. Oggi, dopo la scienza e la valutazione dei problemi economici, sarebbe auspicabile una campagna di engagement finalizzata ad educare la popolazione ad un cambiamento comportamentale che renda naturali ed accettabili le misure preventive richieste. Qui non basta il passaggio di mero nozionismo: bisogna supportare sul piano emotivo, motivazionale e pragmatico le persone affinché riescano a mettere in atto i cambiamenti comportamentali richiesti. Noi, come Centro di Ricerca EngageMinds HUB, crediamo che questa sia una chiave fondamentale. Abbiamo, in proposito, lanciato una campagna di sensibilizzazione dal titolo “Io sono engaged” che a partire da un vademecum di semplici principi, attraverso anche video sui social e brevi dirette Facebook, promuove il coinvolgimento attivo delle persone nella gestione della salute accompagnando un cambiamento comportamentale caratterizzato da maggiore responsabilità e aderenza alle misure preventive di contenimento al virus.

Ma cosa consiglierebbe ad un assessore regionale alla Sanità o al ministero della Salute?

Suggerirei la formazione di una task force sulla promozione al coinvolgimento attivo delle persone. Una task force composta da sociologi, psicologi, educatori, igienisti per stilare delle linee guida per una educazione alla salute più capillare ed efficace. A mio parere non basta combattere le “fake news”: queste purtroppo sono solo la punta di un iceberg di sfiducia, disinteresse e demotivazione della popolazione verso la gestione della salute propria e altrui. E’ necessario passare dal “Devi fare” al “Ti aiuto a capire perché ti chiedo di farlo e ad essere motivato a mettere in pratica le misure richieste”. Anche perché noi dovremo convivere con le misure preventive e con il Virus per diversi mesi, forse perché no, nella peggiore delle ipotesi, anche a prepararci ad una cronicizzazione della situazione.


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