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Perché la Rai non racconta la “vera storia” sulla Cina? Il commento di Pennisi

Perché Telepechino, come ora meriterebbe di essere chiamata la Rai, non ci conta la vera storia? La vera storia, per chi non lo sa, è il titolo di un’opera di Luciano Berio, tratto a sua volta, da un verso del primo atto de Il Trovatore di Giuseppe Verdi.

La vera storia è molto semplice ed è ben documentata. I primi casi del virus sono stati segnalati già a metà novembre 2019 in Mongolia Esterna, Repubblica indipendente ai confini con la Cina. È – come è noto- uno dei Paesi meno popolati del mondo, un terzo della cui popolazione è nomade. I confini con la Mongolia Interna, regione “autonoma” della Repubblica Popolare Cinese sono molto labili, anche perché sotto il profilo etnico e linguistico, la popolazione è sostanzialmente la stessa. Già all’inizio di dicembre, i funzionari della Mongolia Interna erano a conoscenza della nascente epidemia. Non lo hanno comunicato alle autorità di Pechino perché sanno che la loro autonomia è limitata e che alla Città Proibita è meglio non inviare cattive notizie poiché arriverebbero probabilmente ispezioni e l’autonomia della Repubblica semi deserta diventerebbe ancora minore.

E dal Nord che il virus è arrivato alla fine del 2019 alla provincia centrale dell’Hubei ed alla sua capitale Wuhan, probabilmente tramite selvaggina mongola molto apprezzata ai tavoli della high society della provincia. Già in dicembre c’erano focolai di una misteriosa, e spesso letale, polmonite. Nel 2002, in seguito all’epidemia della Sars, la Cina si è dotata di un modernissimo sistema informatico per dare in tempo reale informazioni su malattie infettive – da centro sanitario a centro sanitario, da ospedale ad ospedale, dalle province al governo centrale. Non è stato utilizzato ancora una volta perché i funzionari, ed i politici, locali hanno paura di dare cattive notizie al centro. Le prime informazioni su questo nuovo coronavirus molto infettivo sono state date a metà gennaio da medici tacciati di essere malelingue e redarguiti come “nemici della patria”. In breve si sono persi circa due mesi mentre il contagio si faceva sempre peggiore e le autorità sono state costrette al lockdown dell’Hubei per evitare una strage, la cui dimensione non saranno mai note (anche a ragione della poca affidabilità delle statistiche cinesi). Nel contempo, il virus infettava il resto del mondo.

Ai ritardi su piano interno si sono aggiunte le pressioni internazionali perché si minimizzassero l’epidemia ed i suoi effetti. Da vent’anni, la Cina persegue una strategia per controllare o almeno influenzare le organizzazioni internazionali multilaterali; ad esempio, ora Pechino fa il bello ed il cattivo tempo alla Fao. Il direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), il politico (laureato in medicina) etiope Tedros Adhanom Ghebreyesus è stato eletto all’attuale carica da una coalizione orchestrata da Pechino il 23 maggio 2017 ed è ben consapevole che per essere rieletto alla fine del suo mandato quinquennale deve poter contare sulla Cina. Quindi, l’Oms ha minimizzato l’epidemia sino a quando era fin troppo evidente che il virus stava provocando una strage.

È una vicenda semplice e tragica. Perché non raccontarla, come dovrebbe fare un servizio pubblico per il quale si paga un canone, invece di omaggiare ogni mascherina che arriva da Pechino? Il Parlamento farebbe bene a chiederlo.

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