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I sacerdoti e quella tentazione ai tempi del coronavirus

Che questa chiusura ponga non pochi problemi alla Chiesa è del tutto evidente. Ed è anche normale che sia così. I vertici della Cei hanno saputo resistere a tanti rischi, sospendendo la celebrazione comunitaria. Il web così è diventato importantissimo per tutta la chiesa e il segno più evidente di questo è la trasmissione in diretta della Messa mattutina officiata da papa Francesco ogni giorno.

Ma i momenti di difficoltà sono anche quelli che possono portare a galla qualcosa di profondo in alcuni, un riflesso magari dimenticato, o rimosso nei tempi normali, che però riemerge davanti alle difficoltà. Per questo merita di essere letto il documento sulla risposta da dare alla sfida del coronavirus e pubblicato sul sito della Conferenza Episcopale dell’Umbria. Il titolo, un po’ retorico, è comunque interessante: “Alla pandemia del coronavirus sostituiamo la pandemia della preghiera e della tenerezza”. Ma leggendo si può percepire una tentazione molto rischiosa.

Il punto più importante della riforma liturgica del Concilio Vaticano II è stato, parlando con linguaggio semplice, quello di mettere in chiaro che ogni domenica, quando vanno in chiesa, i fedeli non sono semplici “spettatori non paganti”. Eppure nel documento dei vescovi umbri si afferma che la materia della celebrazione sono il corpo e il sangue di Cristo, non la presenza del popolo di Dio: “(…) se la “materia” fosse l’assemblea si dovrebbe pensare paradossalmente ad una sua trasformazione o addirittura ad una sua ‘transustanziazione’, concetto del tutto estraneo alla tradizione cattolica e alla teologia dell’Eucaristia”. Si arriva così al secondo paragrafo: “L’assemblea partecipa alla celebrazione ma non è la protagonista costitutiva dell’atto sacramentale, come lo è invece il ministro ordinato, presbitero o vescovo”.

Ha scritto al riguardo il teologo Andrea Grillo, professore ordinario di Teologia sacramentaria presso la Facoltà Teologica del Pontificio Ateneo S. Anselmo di Roma e docente di Teologia presso l’Istituto di Liturgia Pastorale di Padova e l’Istituto Teologico Marchigiano di Ancona: “Con queste categorie si resta alla divisione tra clero e popolo nell’atto di culto: oh, se Rosmini leggerà queste poche righe, quanto se ne addolorerà. Sono passati quasi 200 anni e i Vescovi non hanno ancora capito! Questa divisione tra ‘validità oggettiva’ e ‘fruttuosità’ è la degenerazione di categorie classiche, che oggi funziona come sordità alla logica del Vaticano II, che vuole tutti partecipare ‘per ritus et preces’. Una teologia che pensa l’attuazione del mistero ‘incondizionata’ rispetto alla presenza del popolo non merita di essere chiamata teologia. Ed è una teologia che non riesce a giustificare la Riforma Liturgica, perché la grande riforma ha avuto nel superamento di queste ideucce clericali la sua vera ragion d’essere”.

In effetti l’impressione di esserci andati un po’ troppo con nettezza ci deve essere stata anche nell’estensore del documento, se al punto 3 si cerca di attenuare: “La presenza del popolo di Dio non è accessoria e il sacerdozio battesimale è inseparabilmente unito a quello ministeriale”. Dunque si può respirare, ma il “però” è in agguato e arriva infatti subito dopo: “La Messa però non dipende dal sacerdozio battesimale. I fedeli “compiono la propria parte nell’azione liturgica” (LG 11), ma non sono loro che attuano e rendono presente il gesto di Cristo che si offre al Padre ogni volta che, obbedendo al suo comando, il ministro – a nome della Chiesa e in persona Christi – fa memoria della sua Pasqua”.

Il documento sembra aver dimenticato alcuni capisaldi del Concilio. Il punto 26 della costituzione conciliare Sacrosantum Concilium infatti afferma in modo accessibile a tutti: “Le azioni liturgiche non sono azioni private, ma celebrazioni della chiesa, che è sacramento di unità, cioè popolo santo radunato e ordinato sotto la guida dei vescovi. Perciò appartengono all’intero corpo della chiesa, lo manifestano e lo implicano; i singoli membri poi vi sono interessati in diverso modo, secondo la diversità degli stati, degli uffici e dell’attuale partecipazione”.

Rispetto alla solitudine propria del clericalismo c’è tutt’altro senso in Aimé George Martimort, liturgista che nel 1967 ottenne l’onorificenza di prelato domestico (o d’onore) di Sua Santità, il quale ha scritto che “i Padri dicono dell’assemblea liturgica particolare ciò che è proprio della Chiesa intera: che essa è il Corpo di Cristo, al punto che non venire all’assemblea è diminuire il Corpo di Cristo; i cristiani sono invitati a radunarsi “come in un solo Tempio di Dio”; la voce dell’assemblea è la voce della Chiesa, sposa di Cristo; il sacrificio offerto nell’assemblea è la Messa, memoriale della presenza del sacrificio della Croce che fa la Chiesa”.

L’impressione è che se l’estensore del documento firmato dai vescovi umbri avesse voluto solo affrontare una situazione oggettivamente difficile e dolorosa per tutti non avrebbe avuto bisogno di andare tanto lontano, bastava ricordare che la celebrazione individuale rimane, sapendo bene che quella collettiva tornerà quando possibile. Ma questo doloroso frangente può risvegliare il desiderio di essere “loro” la Chiesa: quel desiderio profondo è una sfida che il tempo del coronavirus pone a tanti sacerdoti. Un rischio molto più importante di un documento che forse neanche tutti i firmatari hanno letto. Il clericalismo.


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