Quante volte dalla fine del primo governo Berlusconi è stato detto e scritto che il Cavaliere era ormai finito politicamente? Praticamente un giorno sì e uno no, per anni. E se lo stesso schema fosse ora applicato, come una sorta di nuova moda giornalistica e sondaggistica – con tutto il rispetto per chi fa le rilevazioni anche in tempi non certo normali pure per la politica – a Matteo Salvini, seppur i personaggi siano molto diversi?
Il leader della Lega non ha mai fatto finora il premier, non ha un background da grande imprenditore, non rappresenta quella potenza economica, finanziaria, mediatica che fa di Berlusconi qualcosa che esiste indipendentemente dai consensi, a una cifra ora, del partito che ha fondato e guida e cioè Forza Italia. Il leader leghista ha 47 anni ed è cresciuto a pane e politica alla scuola prima della Lega Lombarda (sua prima tessera) e poi della Lega Nord di Umberto Bossi, che nacque prima di Forza Italia. Le diversità oggettive, quindi, a partire da quelle anagrafiche con Berlusconi, fondatore del centrodestra, ci sono e molte.
A differenza di “Silvio”, Salvini non ha neppure quella vasta rete di rapporti internazionali che il 4 volte premier si è costruito via via. Ma Salvini ha dalla sua parte i consensi, sondaggi permettendo. Stando ai numeri reali, è l’uomo che ha salvato la Lega, facendola volare dal 3 per cento, al quale era precipitata, a oltre il 30 di Europee e Regionali del suo nuovo partito nazionale. L’ultimo test vero fatto sul campo sono state le suppletive in Umbria l’8 marzo scorso, in piena emergenza e in condizioni davvero proibitive, dove la candidata leghista Valeria Alessandrini, per tutto il centrodestra, è stata eletta nel Collegio Umbria 2, quasi metà della Regione, con circa il 55 per cento, quasi con la stessa ampia percentuale della neopresidente leghista Donatella Tesei, emblema del “cappotto” verde o blu “sovranista” che dir si voglia dell’ottobre scorso e che Alessandrini ha sostituito al Senato. Certamente il campione è minuscolo e in una delle più piccole Regioni italiane. Seppur l’Umbria resti ad alto valore simbolico perché era una delle ultime roccaforti rosse.
Detto questo, è innegabile che per Salvini non sia per niente ideale lo scenario da coronavirus con la politica di piazza sospesa, quella a stretto contatto con la gente, di cui lui ha fatto un culto, nonostante i facili sfottò per i selfie da parte di avversari che però finora sono stati più a corto di lui sia di selfie che di consensi. È evidente che Salvini ora comprensibilmente si senta un po’ come un leone in gabbia, essendo un leader con un Dna movimentista, lui, l’ex ragazzo che aveva fatto a Milano della sua auto una specie di roulotte, con secchi di colla, manifesti, (in questo simile al Bossi delle origini), persino stampelle con abiti di ricambio. E in un giorno girava per vari mercati per poi andare al consiglio comunale di Milano. Qui fu eletto giovanissimo, riuscendo ad attrarre anche i voti dei ragazzi bene di Via della Spiga, zone fino ad allora off limits per la Lega Nord.
Ma Salvini è cresciuto alla scuola della Lega di lotta e di governo che Umberto Bossi modellò non solo su questa vecchia parola d’ordine del Pci ma anche sull’impianto organizzativo e una certa disciplina interna dello stesso Pci. Fino a far dire a Roberto Maroni: “Siamo l’ultimo partito leninista”. Ma non per i contenuti, che hanno visto la Lega sin dalle origini un partito per lo sviluppo economico e con tratti liberisti, quegli stessi che il pentastellato Alessandro Di Battista ha rimproverato sere fa in tv a Salvini, facendogli però di fatto, senza volerlo, un complimento agli occhi di milioni di italiani. No, partito leninista nei metodi e quindi come tale con il “culto” del capo. Bossi viene ancora oggi chiamato in Via Bellerio, per rispetto del padre-fondatore nonostante i dissensi con Salvini, ancora così :”capo”.
Salvini è stato chiamato invece “il capitano” per segnare la discontinuità in un partito dove il leader attuale è stato eletto con le primarie. Ma lo schema “leninista” persiste. Maurizio Belpietro, alla guida della La Verità, uno dei pochi direttori che la Lega di ieri e di oggi la conosce davvero bene, in tempi in cui i giornalisti “legologhi”, di cui alcuni non sono neppure mai stati sul pratone di Pontida, abbondano quasi come i virologi, giorni fa ha spiegato molto lucidamente perché chi in Lega si contrappone o tradisce il “capo” non ha poi più futuro politico. Citando con precisione fatti e finali politici di “ribelli” della Lega di ieri. Piaccia o no, in Via Bellerio funziona ancora oggi così. A maggior ragione con un leader che ha portato la “piccola Lega a diventare primo partito nazionale”, parole di Salvini in molte manifestazioni.
Che in Via Bellerio funzioni così lo può confermare, ammesso che ce ne sia bisogno, pure chi scrive, da inviata politica anche sulla Lega, mestiere che anni fa in pochi nei giornali volevano fare, perché i cosiddetti “barbari”, considerati ancora oggi poco chic, figuriamoci allora come fossero guardati. Lo scenario è completamente cambiato. Ma la regola resiste. È ovvio che proprio per questo Belpietro non si riferisse a personaggi di oggi, ma appunto di ieri, da Franco Castellazzi a Flavio Tosi. Non certo agli svegli e avveduti, leghisti nell’anima, Giancarlo Giorgetti e Luca Zaia. Su di loro è ripresa la ormai un po’ stucchevole telenovela giornalistica, secondo la quale starebbero lì a brigare contro “il capitano” dato in discesa dai sondaggi. Ma, detto con rispetto, seppur con un filo di ironia, in un modo così rapido che se scende di un punto al giorno tra un mesetto toglieranno la Lega di torno. Giorgetti è da sempre una sorta di Gianni Letta di Salvini e prima ancora di Bossi e Maroni. E forse Giorgetti è anche qualcosa di più in Via Bellerio, rappresenta il punto di mediazione più forte con il vasto mondo di potere economico e finanziario ossatura della Lombardia. Ma Giorgetti, prezioso per Salvini anche nei rapporti Oltreoceano, è appunto il Letta di Via Bellerio. E come tale non ha mai ambito a farne il capo. Essendo il riservato “Giancarlo”, una sorta di Letta “padano”, personaggio di grande lealtà, oltre che di profonda osservanza leghista fino a definirsi “il militante ignoto”, è inimmaginabile vederlo a costruire trame stile Gianfranco Fini con il Cav.
Zaia, il potente governatore del Veneto, nell’arco di dieci anni il più votato d’Italia, la cui popolarità anche per come ha gestito il coronavirus salita “al 79 per cento” è stata elogiata sere fa da Salvini a “Quarta Repubblica” di Nicola Porro, è personaggio da sempre con i piedi ben piantati per terra. Come tutta la sua biografia umana e politica sta a dimostrare. È così rispettoso delle regole della casa politica, conosciute fin da ragazzo, che lo stesso Bossi – con il quale era concesso solo a Giorgetti di alzare la voce di fronte ai pittoreschi vaff del Senatùr – una volta gli disse ironico: “Eh, Luca, sei un vero democristianone”. “Luca” da Bibano di Godega Sant’Urbano (Treviso) per origini familiari proprio dal mondo Dc proviene, come del resto il grosso della Liga veneta, scritto con la i, la prima delle Leghe che Bossi federò nella Lega Nord. Sembra paradossale, ma lo stesso Giancarlo Gentilini, per anni sindaco di Treviso, nonostante i suoi metodi tosti ma efficaci, detto “Lo Sceriffo”, il quale però fece anche allestire la mensa per gli immigrati regolari a dispetto di certe “sparate”, proprio dal mondo della ex Dc veneta proviene.
Detto questo, ovvio che la Lega è sì “leninista” ma non un monolite e quindi con varie sensibilità e sfumature, come del resto tutti i partiti. Quanto alla ennesima puntata della telenovela di presunti dissensi con Giorgetti, sere fa in tv Salvini ha risposto ironico: “Cose che valgono come i libri di Topolino alle mie spalle. Le mie liti con Giorgetti sembrano cronache marziane”.
Dunque, tornando al paragone iniziale, secondo il quale a un Salvini, dato un po’ troppo presto per finito politicamente, sarebbe stato applicato dalla sinistra lo stesso schema usato con il Cav, quale sarà la traversata nel deserto del “capitano”? Se non si andasse a elezioni politiche fino al 2023? E, come ha scritto Stefano Folli su La Repubblica, se Berlusconi “già inseritosi in area semigovernativa” un giorno entrasse a far parte di un nuovo governo “più adeguato e rappresentativo degli italiani” (parole dello stesso Berlusconi)?
Il presidente di Fi ha sottolineato in tutti i modi di restare comunque “opposizione costruttiva ma alternativa alla sinistra” e ha ribadito che l’unità del centrodestra è intatta, “pur non essendo la coalizione un partito unico e rappresentando come Fi l’anima liberale, europeista del centrodestra”. Ma è innegabile che una oggettiva incrinatura, sul Mes sanitario e anche sulla mozione, a prima firma di Salvini, di sfiducia al ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, tra il Cav da un lato e gli alleati Salvini e Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d’Italia, dall’ altro si è creata.
Il leader leghista, ex ministro dell’Interno, è apparso all’inizio un po’ in difficoltà rispetto al movimentismo in tempi pre-coronavirus che lo hanno premiato sulla politica della sicurezza e l’immigrazione. Ma c’è da dire che tanto fermo poi non è rimasto. Salvini lanciando in modo più sonoro di altri da subito l’allarme sulla grave crisi economica, di fronte alla quale ha annunciato un piano per la ricostruzione per il Primo maggio, ha intercettato un dramma già in atto e che dominerà purtroppo l’Italia dopo il superamento della tragedia sanitaria. Molti incontri con le categorie più rappresentative del mondo imprenditoriale Salvini aveva iniziato a farli fin da marzo. E intanto tra la narrazione del premier Giuseppe Conte e il Paese produttivo qualcosa sembra essersi incrinato dopo la conferenza stampa di domenica 26 aprile. Una situazione che ora rischia di mettere a disagio la stessa “opposizione costruttiva” di Fi. Opposizione che rischia anche di essere appannata un po’ paradossalmente dalla stessa durissima reazione di Matteo Renzi, socio del governo, che però evidentemente non vuol lasciare al Cav il boccino del potere di interdizione in scenari di eventuali nuovi esecutivi.
Nel frattempo, anche se è passato giorni fa quasi inosservato, Salvini ha pronunciato per la prima volta parole “berlusconiane” d’antan come quella “rivoluzione liberale” della discesa in campo del Cav, detassazione fino al “condono”. Un concetto rafforzato in un’intervista a La Stampa dove il leader leghista dice: “Abbiamo bisogno di un pensiero liberale”. E pone l’accento su “libertà d’impresa, libertà individuali, libertà di culto”. Tutti nervi lasciati scoperti dal prolungato lockdown annunciato dal premier. Salvini recentemente ha anche ribadito la netta scelta di campo per l’Alleanza atlantica. Il punto irrisolto restano le relazioni a livello europeo. Ma con questa mossa che sembra prefigurare una svolta liberale della sua Lega non c’è dubbio che mette un po’ in difficoltà anche gli stessi agguerriti alleati- concorrenti di FdI dati sempre in crescita in tutti i sondaggi, seppur molto distanti dalla Lega.
Giorgia Meloni ha dato vita a una manifestazione dei suoi parlamentari davanti a Palazzo Chigi dopo aver criticato Salvini per aver annunciato un’iniziativa che non ci sarà, almeno nei termini in cui era stata dai giornali interpretata. E intanto personaggi dem come Dario Franceschini, il potente capo della delegazione al governo di un Pd in sofferenza rispetto alla gestione Conte dell’emergenza, sembrano corteggiare la Lega. Il “doroteo” doc “Dario”, se non ci fosse una soluzione Draghi, si prepara a guidare, secondo indiscrezioni, un nuovo governo che sia il più possibile di unità nazionale? Scenari, che come tali vanno presi con le molle. Ma è un fatto che il ministro dei Beni culturali e Turismo in occasione del 25 aprile abbia elogiato il gesto del sindaco leghista della sua Ferrara che “ha ricordato mio padre partigiano”. Ed è evidente che la Lega abbia tutt’altra intenzione che farsi incastrare in giochi di Palazzo interni alla stessa maggioranza. Se il centrodestra, come ha scritto Daniele Capezzone per il sito online Zuppa di Porro, si facesse disarticolare farebbe “un regalo alla sinistra”. Ma, intanto, una cosa è certa, come la lunga storia di Via Bellerio dimostra: disarticolare la Lega, per relegarla di nuovo a cifre marginali, sogno che la sinistra coltiva da una vita, appare come una mission impossible. “Tanto prima o poi a votare si andrà”, dicono in Via Bellerio. E Salvini, descritto in un angolo, nello stesso centrodestra sembra un po’ sparigliare con una mossa stile Bossi dei tempi d’oro.