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Servizio sanitario nazionale, cosa insegna la pandemia. Il commento di Sacconi

La crisi pandemica ci ha definitivamente insegnato le caratteristiche di un servizio sanitario nazionale sostenibile anche di fronte ai grandi rischi. Esse corrispondono ai criteri descritti nel 2009 dal Libro Bianco “La vita buona nella società attiva” e alla riforma del federalismo fiscale del 2010. In sintesi, si ipotizzò allora, nel quadro di un regionalismo responsabile e della necessaria integrazione socio-sanitaria, la proporzione ideale tra i macrolivelli di assistenza in ciascun ambito geografico-amministrativo.

Sul totale della spesa, la prevenzione avrebbe dovuto rappresentare il 5%, ai servizi territoriali si sarebbe dovuta garantire una quota del 51% mentre la spedalità si sarebbe calcolata al 44%. L’innovazione e la ricerca nel decennio successivo hanno ulteriormente confermato la possibile ottimizzazione dei percorsi terapeutici e della continuità assistenziale. Il riparto del fondo sanitario nazionale in base ai costi standard, da non confondere con i prezzi di riferimento applicabili alla famosa siringa, avrebbe dovuto garantire ad una Regione efficiente la capacità di erogare i livelli essenziali di assistenza. Le addizionali Irpef avrebbero dovuto servire a coprire i servizi aggiuntivi e non il disavanzo.

Da questi indicatori avrebbe quindi dovuto discendere un adeguato investimento nella prima linea dei medici di medicina generale e dei pediatri, degli specialisti, dei medici del lavoro, degli igienisti e degli stessi sindaci per garantire prevenzione, diagnosi precoci, cure domiciliari, appropriatezza delle soluzioni dedicate ai bisogni della cronicità. Nella gestione del contagio si sono praticate a domicilio anche terapie farmacologiche ospedaliere.

Gli ospedali, in base anche ai parametri minimi di efficienza varati nel 2015 e al programma nazionale degli esiti, si sarebbero dovuti concentrare in strutture comprensive di tutte le tecnologie e di tutte le competenze, incluse quelle della rianimazione e delle terapie intensive. La stessa separazione dei percorsi di accesso, nel caso di contagio, si sarebbe potuta realizzare solo in plessi di adeguata dimensione. Ora possiamo quindi definire le funzioni essenziali e i caratteri modulari di una struttura identificabile come “ospedale”, investendo conseguentemente e riconvertendo molti vecchi o piccoli nosocomi in case della salute, centri di igiene e salute pubblica, poliambulatori della medicina specialistica, attività di riabilitazione, residenze per anziani, hospice per l’accoglienza dei malati terminali, luoghi dedicati ai minori disabili ed altro ancora. L’ospedale è l’ultima istanza per un bisogno acuto di salute, la retrovia che deve essere protetta dal filtro “primario” dei servizi del territorio.

Vi è da riconoscere che l’esperienza di questi mesi ci ha insegnato anche ad irrobustire la componente sanitaria delle residenze per anziani come ha avviato una rivalutazione dei professionisti dedicati alla igiene pubblica e dei medici del lavoro. In quest’ultimo caso, si è evidenziata l’opportunità di produrre nei luoghi di lavoro una sorveglianza sanitaria olistica a tutela in primo luogo del lavoratore. Così come confidiamo si sia affermata la ovvia esigenza di una unica infrastruttura tecnologica e contabile nazionale che può solo esaltare l’autonomia regionale.

Ora, comprensibilmente, si parla di sottofinanziamento del servizio sanitario e si ipotizzano risorse aggiuntive anche di fonte europea. Il loro impiego dovrebbe essere coerente con la lezione della crisi ed orientarsi in primo luogo ad investimenti nelle infrastrutture e nell’innovazione. Sarebbe quindi colpevole finanziare le Regioni “a prescindere” perché consolideremmo le attuali inefficienze. Non si dimentichi la regola ampiamente sperimentata. Chi chiede di più, in termini di addizionali fiscali, eroga di meno in termini di prestazioni. E viceversa.


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