La rivoluzione digitale sta segnando in maniera sempre più radicale le nostre vite. Se già prima della crisi sanitaria i social network avevano ampiamente plasmato la visione comune del mondo e della realtà, nel lockdown la quotidianità e la socialità di molti rischia di essere totalmente inghiottita dalla rete. Tutto questo pone non pochi interrogativi rispetto alla riflessione sull’uomo e sulla direzione che tutti noi, complessivamente, stiamo imboccando. Dalle tematiche ambientali a quelle antropologiche, fino all’utilizzo delle nuove tecnologie e al rischio, epocale, di finire catapultati in un sistema di sorveglianza di massa.
“Più che di cambiamento antropologico direi che ci troviamo in un cambio d’epoca, in un momento di sfida, in una contingenza storica in cui tutti e ciascuno è chiamato ad un giudizio: la scelta di che cosa conta nella vita e che cosa passa, la scelta di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è”, spiega in questa conversazione con Formiche.net padre Alberto Carrara, neuroscienziato e sacerdote, direttore del Gruppo di Neurobioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum e Fellow della Cattedra Unesco in Bioetica e Diritti Umani. Riprendendo il filo dalle parole pronunciate lo scorso 27 marzo da Papa Francesco, nella piazza San Pietro vuota che ha segnato tragicamente l’inizio della pandemia.
Siamo nel mezzo di un cambiamento antropologico?
Più che di “cambiamento antropologico” direi che la quarta rivoluzione industriale in cui ci muoviamo ed esistiamo, quella dell’informatica algoritmica e delle biotecnologie, ha una duplice potenzialità: da una parte, quella di compromettere in maniera drastica ed irreversibile gli equilibri ambientali, l’ecologia globale. E in ultima analisi, l’evoluzione digitale ha il rischio di portare all’estinzione della nostra stessa specie Homo Sapiens.
Niente di troppo rassicurante, direi…
Si tratta di aspetto moderatamente apocalittico sottolineato sin dal 2015 da importanti studiosi come Stephen Hawking o Noam Chomsky, due degli oltre 1000 personaggi della cultura globale che sottoscrissero una lettera aperta sulla robotica e l’intelligenza artificiale chiedendo che le ingenti risorse planetarie sul digitale e il biotech venissero destinate non allo sviluppo bellico, bensì alla ricerca umanizzante, quella che dovrebbe mirare a soluzione terapeutiche per le patologie neurodegenerative che ancora oggi non hanno una risposta sufficientemente accettabile.
L’altra potenzialità di cui parlava?
Sull’altro lato della stessa medaglia abbiamo l’avvincente ed entusiasmante scenario tecnologico e medico che oggi più che mai ci colloca in una situazione decisamente migliore rispetto ai nostri nonni. Come ha recentemente messo in evidenza lo storico israeliano Yuval Noah Harari, ci troviamo a vivere l’epoca migliore per poter affrontare clinicamente e tecnologicamente la pandemia da Covid-19 e questo grazie allo sviluppo della medicina molecolare, delle biotecnologie e dell’intelligenza artificiale. La “nuova era” che abbiamo inventato e prodotto è erede di una millenaria storia che ha prodotto negli ultimi due secoli enormi trasformazioni, di cui dobbiamo essere entusiasti.
Tutto ciò, dove ci porta?
Dobbiamo prendere coscienza di un fatto. Come qualche mese fa sottolineava Brad Smith, presidente di Microsoft, l’intelligenza artificiale è come una scopa: la puoi utilizzare per spazzare e cioè per un fine buono, utile, oppure la puoi anche sbattere sulla testa di un altro uomo sino ad ucciderlo. La tecnologia e la scienza non sono mai neutre, sono sempre buone come scoperte, ma il loro impiego, la loro destinazione sempre si porrà su un bivio: un uso buono promuoverà lo sviluppo integrale dell’uomo, di tutto l’uomo e di tutti gli uomini, mentre un utilizzo cattivo svilirà la dignità umana, lederà i diritti fondamentali, insomma, avrà la capacità di distruggerci, di auto-distruggerci.
Come porci di fronte a questa biforcazione?
L’atteggiamento che dovremmo formare in questo periodo è quello di un sano discernimento critico, cioè di una ponderazione profonda, serena, lontana dagli estremisti e dagli eccessi, spuria della violenza verbale e della superbia di voler aver ragione. L’atteggiamento che ci permetterà, ancora una volta nella storia, di vincere la pandemia che ci affligge sarà l’umiltà e il dialogo, la solidarietà e la cooperazione.
Il coronavirus ci chiama a un ripensamento della nostra idea di uomo?
Il coronavirus si è globalmente diffuso come una vera e propria “tempesta” in un mondo globalizzato e tecnologizzato che si muoveva frenetico e quasi inarrestabile verso la conquista dei suoi obiettivi di crescita, produzione ed efficienza, premiando con la fama quelle “hard” e “soft skills” tipiche delle nostre industrie 4.0. Ecco l’idea di “uomo” da ripensare.
Come siamo già cambiati e come dovremo cambiare nei prossimi mesi?
Oggigiorno siamo chiamati a reinventare le nostre relazioni e a scoprire le nostre deep skills, quelle relative alla nostra capacità empatica, al saper stare con gli altri, all’ascolto, alla solidarietà, ma pure alla moralità e alla responsabilità. Queste strategie positive avranno effetti positivi sulla nostra percezione di noi stessi, della malattia e sul futuro. Su questa linea ci potrà essere un cambiamento verso il meglio.
C’è bisogno, a suo avviso, di un nuovo patto tra cittadini e istituzioni, per ripensare la nostra libertà e la nostra socialità?
Lo affermava Harari a più riprese nella sua trilogia da Sapiens a Homo Deus a 21 Lezioni per il XXI secolo: oggi stiamo vivendo una crisi globale di fiducia. Le persone non si fidano più dei loro politici e dei mezzi di comunicazione sociale. Da questa prese di coscienza, da un profondo esame di coscienza su questo punto potremmo ripartire per tessere, con i fatti e non a parole, una trama sociale globale che abbia la ricerca della verità il suo cardine. Per potersi fidare di qualcuno, quel qualcuno deve diventarmi veritiero, cioè deve dimostrarmi non solo empatia e comprensione, ma soprattutto interesse per il mio benessere.
Come le sembra che stiano evolvendo gli scenario internazionali?
Oggi assistiamo alla mancanza di collaborazione tra gli Stati e questo è un segno negativo, una chiara manifestazione che non ci si fida più gli uni degli altri. Bisogna ripensare un patto tra cittadini ed istituzioni dove al centro ci sia la persona umana, i suoi interessi e la reale intenzione di servirla nel suo sviluppo integrale. Inoltre, la cura dei più deboli o la scelta di una mancata cura dei più vulnerabili è un forte indice di chiusura, di egoismo, di autosufficienza che va contro la natura intrinsecamente sociale e socievole di noi Homo sapiens.
Come può l’intelligenza artificiale aiutare nella lotta contro il coronavirus?
L’intelligenza artificiale ha aiutato sin dagli inizi la battaglia contro il virus in questa pandemia. In primo luogo, gli algoritmi per sequenziare e perciò per identificare dal punto di vista genetico la presenza del Covid-19, attraverso le sofisticate biotecnologie, come la real time PCR, sono frutto dell’evoluzione digitale, del connubio tra tecnologia, informatica e ricerca di base in ambito genetico. Inoltre, l’impiego dell’IA per contenere i contagi, per monitorizzare la popolazione come è avvenuto in Corea del Sud, ma anche in Italia a Vò Euganeo per ricostruire le intricate relazioni tra gli infetti, tutto questo lo possiamo oggi fare grazie all’intelligenza artificiale, al cosiddetto machine-learning a al deep-learning. L’IA ci sta di fatto aiutando, è un nostro prodotto che può essere il nostro miglior alleato in questa battaglia. Dipende da come lo utilizziamo e da come continueremo ad impiegarlo.
È giusto rinunciare alle nostre identità personali, seppure digitali, in cambio della nostra sicurezza?
Ecco vede questa domanda si riallaccia alla precedente e fa emergere il reale rischio che è già realtà: quello del controllo di massa e della sorveglianza. Harari qualche settimana fa affermava che questo sarebbe il grosso problema più a lungo termine della crisi globale che stiamo vivendo: il giustificare misure estreme di controllo e di limitazione delle libertà individuali, ma persino il riconoscimento biometrico, che potrebbe venir giustificato come mezzo per far fronte all’emergenza. Ma anche dopo di essa, questa idea potrebbe rimanere e venir assunta da alcuni governi. Stiamo parlando cioè della reale possibilità di un sistema di monitoraggio continuo di intere popolazioni giustificabile col fine di proteggere le persone da future epidemie.
Uno scenario terribile, direi, al limite del distopico.
Tutto questo ha il rischio di gettare nuovamente le basi per un regime totalitario estremo. Stiamo affrontando un enorme problema di sorveglianza e privacy nella nostra epoca. Sulla scia di Harari penso che vedremo una grande battaglia tra privacy e salute.
Cosa ne pensa dell’app Immuni, c’è un rischio reale per la privacy dei cittadini? Quali sono i problemi principali che presenta questa tecnologia?
Non sono un giurista, perciò i risvolti giuridici gli lascio a coloro che sono competenti in materia. Ma dal punto di vista della tecnologia che l’app Immuni utilizza sono abbastanza scettico nel senso che un conto è il tracciare gli spostamenti ai fini di ricostruire l’andamento dell’epidemia e prevenire ulteriori contagi, cosa che si può fare senza la richiesta di dati sensibili come mi pare questa e altre app stanno assimilando. Bisogna stare molto cauti con la raccolta di dati sanitari e clinici delle persone. Il rischio di eventuali discriminazioni è molto alto.
Lei è un sacerdote, cosa ne pensa dell’utilizzo della Chiesa del web e dei social network come sostituti della liturgia in tempo di coronavirus, e del rapporto tra parroco e fedeli?
A questo proposito reputo un’opportunità enorme quella di poter mantenere una diversa relazione con i nostri fedeli attraverso la rete. Io stesso durante la Quaresima, sollecitato da numerosi amici e conoscenti, sia in Italia, che all’estero, ho aperto un secondo canale YouTube dedicato a trasmettere in streaming la celebrazione eucaristica, a condividere riflessioni e meditazioni. Le persone hanno bisogno di questa forma di vicinanza.
Che però talvolta non basta…
Ovviamente questi mezzi non sono un sostituto, nel senso che i sacramenti sono concreti e tangibili, come l’incarnazione stessa. Perciò dovremmo ritornare alla relazionalità dei volti e degli sguardi dal vivo, quella dei cuori e delle mani che toccano l’Eucaristia.