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Fra Trump, Putin e MBS chi bluffa di più sul petrolio? Il commento di Tabarelli

“Era prevedibile che qualcosa sarebbe successo nel giro di poche ore, fatico a definire il momento con toni diversi da quelli apocalittici”. Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, commenta così la notizia che potrebbe segnare un passaggio nella crisi del prezzo del petrolio: l’Arabia Saudita ha richiesto una riunione d’urgenza dell’Opec+, il sistema dei paesi produttori di greggio che allarga il cartello saudita ad altri paesi, su tutti la Russia. Lo scopo è arrivare a un accordo sui tagli alle produzioni e ristabilire l’equilibrio sul mercato del petrolio.

La notizia è uscita dalla bocca del ministro dell’Energia azero, e ha un senso ufficiale con tanto di data: lunedì 6 aprile. Dopo una giornata in cui la questione “petrolio” era passata per un tweet di Donald Trump – la massima assise dell’azione politica americana. Il presidente Usa parlava di una “conversazione” tra Vladimir Putin e Mohammed Bin Salman, di un possibile “accordo imminente” su un taglio delle produzioni da circa “10 milioni di barili” al giorno.  Ma su Sputnik il portavoce del Cremlino smentiva: “Non c’è nessuna conversazione”. Trump ha subito l’accusa di voler alterare il mercato, smentito dai russi (che al di là della propaganda sugli aiuti per l’epidemia mantengono sempre interessi competitivi con gli Usa). E d’altronde il numero dato, 10 milioni di barili, va ben oltre quello che l’Arabia Saudita aveva chiesto alla Russia durante l’ultima riunione dell’Opec+, il 4 marzo.

Si parlava allora di 1,7 milioni, e Mosca aveva risposto con un muro mandando in tilt il sistema. Riad aveva reagito molto duramente, portato al massimo la produzione e annunciato sconti extra. Risultato: il prezzo del petrolio era sceso con un picco drammatico. “Questo anche perché la domanda totale è davvero ridotta: ad aprile mancherà circa il 20/30 per cento” a causa del coronavirus, spiega Tabarelli: “Il momento è sconvolgente, ed è proprio il quadro dei consumi che porta a dirlo: la riduzione è necessaria per questioni di fisica. Abbiamo eccedenze pazzesche perché ci sono un miliardo di auto ferme per i vari lockdown in giro per il mondo, e queste non assorbono carburante, per esempio. Così come gli aerei: 200mila a terra”.

Giovedì circolavano le immagini dell’aeroporto Skipol di Amsterdam: una fila di arei della olandese Klm fermi immobili; qualcosa che ricordava quanto visto nei giorni successivi all’11 settembre. Ma a differenza dell’attacco terroristico alle Torri Gemelle, adesso non è chiaro per quanto tempo il fermo durerà – oltre i giorni passati dall’inizio. Il picco dell’effetto, infatti, potrebbe non essere ancora arrivato se si considera che gli Stati Uniti sono ancora a qualche settimana dal punto di massimo dell’epidemia.

“Prima o poi – aggiunge Tabarelli – le grandi compagnie devono fermarsi. Le raffinerie in Italia sono già in questa fase: Ancora è ferma Livorno e Taranto lavorano ai minimi. Pensiamo all’annuncio dello sciopero dei distributori di benzina: l’equazione è facile, ci sono poche persone che girano, i distributori non vendono e arrivano a fine mese senza liquidità per affrontare le scadenze”.

Le dichiarazioni di Trump hanno fatto schizzare subito le quotazioni giovedì. Dopo una correzione in apertura, il Brent oggi sta attorno ai 32 dollari al barile: il 4 marzo era precipitato dai 50 per poi attestarsi successivamente ai 20/23 dollari. Il Wti americano sta sui 25 dollari al barile, ossia attorno alla soglia di sopravvivenza per i produttori americani degli shale oil – il greggio estratto da reservoir argillosi-scistosi che ha tecniche produttive più onorasse dell’estrazione classica, e dunque necessita di prezzi più alti. È il grande problema di Trump: i produttori di shale, che hanno permesso agli Usa di diventare produttore centrale, vorrebbero un livello di prezzi più alti, ma il valore alla pompa è un elemento centrale per il consenso elettorale.

La partita si giocherà tra Stati Uniti, Russia e Arabia Saudita, e in questo momento più che di valore politico – che comunque non mancherà – sarà una questione tecnica (“fisica” come spiega Tabarelli) e di mercato. Gli Usa producono 13,1 milioni di barili al giorno, la Russia 11,3 e l’Arabia Saudita, adesso, dopo la rappresaglia contro Mosca di marzo è salita di nuovo sopra agli 11. Agli shalers servono almeno 40 dollari al barile per guadagnare a sufficienza, e l’unico metodo per raggiungere la soglia è tagliare pesantemente le produzioni, perché la domanda è già calata per il fattore esogeno prodotto dal virus.

Sulla situazione Trump s’è reso conto di perdere contatto con gli stati produttori. Giovedì Ryan Sitton, uno dei commissari della Texas Railroad Commission (l’agenzia che si occupa delle infrastrutture petrolifere texane), ha in effetti avuto una conversazione con il ministro dell’Energia russo, Alexander Novak, e l’omologo saudita, Abdulaziz bin Salman Al-Saud. (Trump si riferiva a questo?). Nei giorni scorsi la Pioneer Natural Resources Co e la Parsley Energy Inc., due delle più grosse aziende dello stato, hanno chiesto al governatore del Texas di imporre in modo indipendente la riduzione del 20 per cento della produzione di greggio.

Giovedì, la “Alexander von Humboldt”, una gigantesca porta-container della francese CMA Cgn ha evitato il passaggio lungo il Canale di Suez: partiva dal porto spagnolo di Algeciras, diretta a Port Klang, in Malesia. La società ha preferito doppiare il capo di Buona Speranza anziché pagare il dazio per tagliare il canale, perché allungare il viaggio avrebbe permesso comunque un risparmio di 300 mila dollari. Il livello di prezzo così bassi, anche effetto della pandemia, diventa un motore di cambiamenti di carattere geopolitico, con tutte le conseguenze annesse e connesse; per esempio si altera il valore talassocratico dello stretto egiziano.

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