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Solidarietà europea e condizionalità. I consigli di Balducci

La Ue o meglio i paesi nordici, guarda caso di cultura protestante della Ue, vogliono legare gli aiuti che chiediamo per far fronte alle difficoltà createci dal Covid-19 alla possibilità di darci istruzioni su come indirizzare la nostra spesa pubblica e, più in generale, la nostra politica economica. Si tratta delle così dette condizionalità. La richiesta di per sé non sarebbe priva di fondamento. Penso di poter generalizzare dicendo che le nostre resistenze, oltre a spirito nazionalistico magari fuori luogo, sono dovute a forti dubbi sul fatto che la Ue sia in grado di darci direttive utili e non rovinose come nel caso della Grecia, direttive che limiterebbero la nostra libertà di scegliere autonomamente la politica economica e le sue priorità, senza portare necessariamente al miglioramento dei nostri conti pubblici.

Tutti gli Italiani sono consapevoli che il nostro debito pubblico va raddrizzato, non tanto per la sua quantità quanto perché è un debito (a differenza di quello dei Paesi nordici e protestanti) acceso in gran parte per realizzare spese correnti e non investimenti. Il fatto è che, nonostante gli sforzi (non solo le dichiarazioni), non ci riusciamo. Tutti dubitiamo che le misure simili a quelle draconiane imposte a suo tempo alla Grecia possano fare il miracolo. Il problema non sta nella volontà politica di tenere sotto controllo e ridurre il debito (non va dimenticato l’avanzo primario che segnalano i nostri conti pubblici, segno che la volontà politica positiva c’è) ma nelle istituzioni pubbliche italiane che hanno bisogno di essere ammodernate.

Chi ci darà l’aiuto economico di cui abbiamo bisogno sarà capace di darci le direttive di natura istituzionale o non economico-finanziaria di cui abbiamo bisogno? Ne dubito come penso che ne dubitino tutti coloro che vedono con sospetto le così dette condizionalità.

Forse c’è stato un solo caso in cui, seppure informalmente e in maniera impropria, autorità titolari di potere finanziario hanno dato istruzioni di tipo istituzionale ad un Paese. Si tratta della famosa lettera a firma Trichet (allora governatore in carica della Bce) e Draghi (nominato da poco governatore della Bce in attesa di entrare in carica) inviata al governo italiano nell’estate del 2011. Orbene questa lettera dà indicazioni di tipo organizzativo istituzionale per invitare l’Italia a uscire dall’avvitamento in cui si era ritrovata. Il fatto è che queste indicazioni vengono date da economisti e non da professionisti del funzionamento delle istituzioni e, agli occhi di questi professionisti, sembrano dei consigli più consoni ad una chiacchierata tra amici al bar che una road map consapevole. Qui darò due esempi: un suggerimento errato e un mancato suggerimento.

Inizierò dal mancato suggerimento. Non si suggerisce all’Italia di cambiare radicalmente la sua contabilità pubblica. Eppure non dovrebbe essere difficile capire che senza una contabilità pubblica adeguata non si è in grado di conoscere come le risorse vengono impiegate né si è in grado di governare l’estrazione delle risorse (fiscalità) e tanto meno il loro uso (spesa pubblica). Su questo sito abbiamo avuto occasione altre volte di soffermarci sull’argomento.

Qui rammentiamo due sole caratteristiche del nostro sistema contabile che rappresentano altrettante palle al piede per chi voglia raddrizzare le nostre finanze. La prima caratteristica riguarda la struttura dei nostri conti sul versante della spesa. Nonostante sforzi legislativi, originati da incitazioni Ocse, ad avere una contabilità articolata sul versante delle spese seconda la destinazione delle stesse (ad esempio spese per gli interventi di cardiochirurgia) abbiamo una contabilità articolata secondo la natura della spesa (spese per antibiotici, per valvole cardiache etc,).

È evidente che con una contabilità così organizzata nessuna spending review è possibile e ci si troverà costretti a controllare la spesa facendo i così detti tagli lineari (riduzione delle risorse per acquisto di farmaci, per diagnostica, per postazioni di terapia intensiva etc.). Ogni tentativo di migliorare la performance (es. ridurre il costo di un intervento migliorando l’impiego del tempo e delle risorse) diventa impossibile.

La seconda caratteristica riguarda la natura esclusivamente giuridica della nostra contabilità che registra cosa ho il diritto di riscuotere e cosa ho il dovere di pagare (contabilità di competenza) e non che cosa ho riscosso e ho pagato realmente (contabilità di cassa). Da questa caratteristica della nostra contabilità derivano due conseguenze disastrose dal punto di vista finanziario: la possibilità di contrastare efficacemente l’evasione fiscale (l’evasione accertata si basa su presunzioni giuridiche e non su reali flussi di cassa) e la capacità di spendere effettivamente le cifre stanziate (che di cassa non si sa quando saranno realmente disponibili).

Il suggerimento sbagliato riguarda l’esortazione ad abolire le province. Qui il suggerimento avrebbe dovuto essere quello di separare le prefetture (demandate ad attività di controllo) dalle province, cui affidare quelle funzioni di erogazione di servizi che si sono venute sviluppando dopo la seconda guerra mondiale, funzioni che risultano troppo complesse per i comuni sopra tutto per quelli di piccole dimensioni. Anche su questo argomento ci siamo soffermati più volte su questa piattaforma (qui e qui).

Il numero delle province dovrebbe aumentare! In questo modo, tra l’altro, si ridimensionerebbe automaticamente il numero di enti partecipati (consorzi, SpA, gestioni associate etc.) che hanno creato a livello locale una vera giungla, giungla che non si riesce a sfoltire con dei semplici diktat come quelli della legge 2010 del 2010. Facciamo un attimo mente locale a quale disastro amministrativo sta creando questa innocua sollecitazione della lettera di Trichet e Draghi!

Se è vero che i cambiamenti che dobbiamo introdurre non sono di natura finanziaria ma di natura organizzativo-gestionale prendiamo il toro per le corna e presentiamoci a chi ci deve fornire aiuto finanziario con un credibile piano di riforme istituzionali. Un piano credibile che non lasci supporre che si tratti di un libro dei sogni come i grandiosi programmi di riforme istituzionali sin qui fatti e che hanno fatto la fine di tanti sogni nel cassetto. Qui si potrebbe chiedere l’accompagnamento (non la supervisione che va di pari passo con le condizionalità) dei nostri partners. Ma si badi bene, non dei nostri partners della Ue, visto che la Ue non ha alcuna esperienza in materia. Magari dei nostri partners del Consiglio d’Europa che dalla sua fondazione 70 anni or sono ha sempre svolto una funzione di clearing house, di borsa di scambio di esperienze tra gli Stati Membri.

Probabilmente i nostri tentativi di riformare le nostre istituzioni non approdano a gran che perché cerchiamo le soluzioni ai nostri problemi nell’ambito degli schemi mentali che sono la causa dei nostri stessi problemi. Aprirci al confronto con le prassi di altri Paesi (su un piano di parità e non come qualcuno che è sotto esame) potrebbe risultarci molto utile. Se è vero che questo che stiamo vivendo è un appuntamento con la Storia dovremmo avere il coraggio di trovare soluzioni che fanno fare un passo avanti alla Storia, soluzioni cioè nuove. Dovremmo prendere l’iniziativa e mettere i nostri partner della UE davanti alle loro responsabilità senza che possano accampare scuse.

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