La Cina vuole interferire nelle elezioni presidenziali americane. Ne è convinto il presidente americano Donald Trump, che in un’intervista a Reuters ha dichiarato che Pechino farà “tutto quel che potrà” per fargli perdere la corsa alla rielezione il prossimo novembre.
Il j’accuse presidenziale ha creato un nuovo caso diplomatico con l’ex Celeste Impero. Puntuale è arrivata la risposta del portavoce del ministero degli Esteri cinese Geng Shuang. Una secca smentita: “Speriamo che gli americani non vogliano trascinare la Cina nella loro politica elettorale”.
La risposta di livello istituzionale apparentemente basso, un portavoce di un ministro contro un presidente, non deve ingannare. L’affondo di Trump non è passato inosservato agli occhi della Città Proibita. Il Partito comunista cinese (Pcc) per l’occasione ha scomodato niente di meno che Hu Xijin, il direttore responsabile del Global Times, megafono anglofono della propaganda di partito, media embedded noto all’estero per le sue stoccate assai poco in linea con il bon ton diplomatico cinese.
“Si ritiene che Trump e il suo team siano consapevoli di come abbiano fallito il loro lavoro di prevenzione e controllo dell’epidemia. Solo facendo odiare la Cina agli americani possono assicurarsi che il pubblico non si renda conto che l’amministrazione Trump è impregnata del sangue degli americani”, scrive Xijin.
Dopo aver consigliato a Trump di ergersi a “Batman politico della crisi negli Usa”, il direttore del foglio di partito conclude con una chiosa minatoria: “Non importa chi diventa il prossimo presidente americano, riuscirebbe a dormire bene nella Casa Bianca, sapendo che così tanta gente è morta?”
Il copione è già scritto: il governo cinese non riconosce le responsabilità nella gestione della pandemia e punta il dito contro gli Usa. Ma i toni sono emblematici di un dialogo che nelle ultime settimane si è ridotto ai minimi termini. Anche perché Trump quelle responsabilità vuole farle pesare.
Nell’intervista il presidente ha ventilato una nuova ondata di dazi e tariffe, con buona pace della Fase 1 nella tregua commerciale con Pechino. “Ci sono molte cose che posso fare, stiamo cercando di capire cosa è successo”. E poi ancora, rivolto ai funzionari del Pcc: “Continuano a usare le relazioni pubbliche per far sembrare di essere innocenti”.
Che non si tratti del solito ping pong di accuse diplomatiche lo confermano anche fonti anonime della Casa Bianca a Reuters. La tregua di parole concordata a fine marzo in una telefonata fra Trump e Xi Jinping, la stessa che ha fatto accantonare al presidente l’espressione “Wuhan virus”, “è finita”.
Il riferimento alla corsa elettorale non è senza precedenti. Anche per le elezioni di mid-term del 2018 Trump aveva preannunciato un’interferenza cinese, poi parzialmente smentita dalle agenzie di intelligence.
Questa volta però l’accusa può avere un significato geopolitico più sottile. Spostare l’attenzione sulle interferenze cinesi significa, inevitabilmente, scagionare in parte le accuse di interferenze russe per le presidenziali del 2020 già in parte trapelate dal mondo dell’intelligence Usa, con cui, è risaputo, Trump non va granché d’accordo.
Quando lo scorso febbraio il Dni (Department of national intelligence) ha consegnato un report ai congressmen che lanciava l’allarme interferenze russe per le elezioni in arrivo, il presidente è andato su tutte le furie con il direttore dell’agenzia Joseph Maguire, che infatti ha lasciato il posto a Richard Grenell il giorno seguente.
L’affondo di Trump può dunque dar vita a due letture. La prima: è un nuovo passo avanti in un percorso di riavvicinamento strategico fra Russia e Usa già notato da esperti internazionali su più fronti, dalla partita del petrolio a quella degli aiuti internazionali.
La seconda: una semplice presa d’atto della politica americana. A differenza del dossier russo, quello cinese unisce in un inamovibile fronte trasversale democratici e repubblicani, trumpiani e detrattori del Tycoon. Lo stesso vale per l’opinione pubblica: secondo un recente sondaggio di Harris, il 77% degli americani ritiene che la Cina sia responsabile del virus.
Per di più, il caso cinese costituisce un punto debole della strategia di politica estera di Joe Biden. L’ex vicepresidente ha alle spalle un lungo record di dichiarazioni benevole nei confronti di Pechino, anche in tempi recenti, e non ha scelto di cavalcare il risentimento anti-cinese che infervora l’elettorato americano da quando il virus ha varcato l’Atlantico. Una scelta rispettabile, ma che alle urne potrebbe non pagare.