Skip to main content

L’Europa, la cultura dello scarto e la fede. Parla il card. Zuppi

“Questa non è la Chiesa: questa è la Chiesa di una situazione difficile, che il Signore lo permette, ma l’ideale della Chiesa è sempre con il popolo e con i sacramenti. Sempre”. Le parole pronunciate la scorsa settimana da papa Francesco a Santa Marta hanno dato un’eco mondiale alla sofferenza di milioni di fedeli costretti da quasi due mesi a rinunciare a partecipare alle funzioni religiose. Battesimi, cresime e prime comunioni rinviate; matrimoni alla presenza dei soli testimoni, messe a porte chiuse trasmesse in streaming e migliaia di morti sepolti senza funerali. Di mezzo c’è stata anche una Pasqua vissuta da moltissimi – specialmente anziani e malati – in solitudine, senza il calore delle famiglie e senza il conforto dei sacramenti. Annullate le processioni pubbliche, manifestazioni di quella devozione popolare profondamente radicata nel nostro Paese. Tra le immagini suggestive di questo momento così delicato per la Chiesa italiana ci sono anche quelle della piccola processione con la Madonna di San Luca guidata nel giorno di Pasquetta dal cardinale Matteo Maria Zuppi che ha benedetto la “sua” Bologna in mezzo al rossoblu dei fumogeni, il colore dello stemma cittadino. Ci sono riti specifici e scatti fotografici che ricorderemo a lungo perché capaci di immortalare l’eccezionalità della situazione che stiamo vivendo. Ma, nel frattempo, come affrontare questo tempo di prova e che risvolti spirituali attendersi quando sarà il momento di tornare alla normalità? Ne abbiamo parlato proprio con il cardinale Zuppi, arcivescovo di Bologna e neo-membro dell’Apsa.

Eminenza, in Italia c’è già chi parla di prenotare le vacanze estive mentre le serrande di alcuni negozi si sono già alzate; non è il momento di consentire di nuovo lo svolgimento dei funerali, sempre nel rispetto delle misure di sicurezza e con la presenza dei soli parenti?

Certamente, è una delle richieste che la Cei ha presentato con insistenza al governo. Bisogna, però, identificare le modalità che tengano conto, rigorosamente perché con il virus non si scherza, dei due elementi chiave, quello della sicurezza e quello della partecipazione. Ad esempio: quale numero possibile? Come garantire il rispetto della distanza? Ho detto in molte occasioni che quando non potevamo celebrare in Chiesa mentre i ristoranti o i bar erano aperti mi si ponevano interrogativi evidenti. Insomma, si tratta di identificare modalità chiare e praticabili. C’è una discussione intensa a riguardo per identificare la nostra fase 2 ed è indispensabile trovare delle risposte e non ignorare la dimensione religiosa.  Il morire da soli – e purtroppo questo avveniva troppo anche in tempi non di emergenza e non per disposizioni istituzionali – e non potere essere accompagnati nell’ultimo tratto del cammino terreno è forse l’aspetto più doloroso di questa tragedia. Come dimenticare l’immagine delle bare a Bergamo? Ho pronunciato i nomi di tutte le persone morte a Bologna, proprio per questo. Non potremo mai accettare che una persona diventi un numero e nella preghiera dobbiamo sentirli “nostri”. Io desidero che tutti i funerali siano sempre accompagnati oltre che dalla famiglia da qualcuno della comunità, che non lascia solo nessuno. Mai.

La creatività dei sacerdoti per rimanere vicini al popolo è stata di grande aiuto in questa fase, però papa Francesco ha sollevato una questione fondamentale: questo rapporto virtuale col Signore è per uscire dal tunnel, non per rimanerci ed ha messo in guardia dal pericolo di una fede viralizzata perché la Chiesa è con il popolo. C’è il pericolo di cadere nella spirale di una “fede viralizzata” e che i fedeli si abituino allo streaming?

Anzitutto sono rimasto sorpreso della creatività pastorale che molti laici, sacerdoti, operatori pastorali hanno espresso per essere vicini alla comunità, usando il digitale, unico strumento possibile di comunicazione e per superare l’isolamento. Peraltro è anche il mezzo abituale della maggior parte delle persone, tanto che ha coinvolto molti abitualmente lontani! Vorrei ricordare che la presenza di Cristo è anche nel Verbum Domini e nell’amore per i fratelli più piccoli di Gesù, quel Corpus Domini che sono indicati dal capitolo 25 di Matteo. Molti cristiani hanno interpretato il digiuno eucaristico come occasione per praticare di più queste presenze di Cristo, spesso lasciate agli esperti o vissute con meno partecipazione personale. Dobbiamo leggere spiritualmente quello che è successo, in modo profondo, per capire qual è la conversione che c’è chiesta. E poi non dimentichiamo il digiuno dalla comunità: che sconforto celebrare nella Cattedrale vuota! La Comunità non è elemento accessorio della Eucarestia, piccola o grande che sia. Il rischio più grande, però, è una Chiesa supermercato, individualizzata, viralizzata perché ridotta a erogatrice di servizi, ad agente di benessere e non un incontro con il Signore che parla al cuore, nella storia, che cambia la vita. L’individualismo, un Vangelo tiepido, timido, mediocre è la premessa della viralizzazione. Oggi però mi sentirei di dire: se la Chiesa è un incontro vivo con Gesù e con i suoi amici, come con i miei familiari con i quali ho parlato in queste settimane per video chiamata, non appena posso li andrò ad abbracciare e cercherò di stare con loro! Anzi, non vedo l’ora!

L’aiuto di volontari delle parrocchie in grado di garantire un servizio d’ordine per far rispettare le distanze di sicurezza tra i fedeli potrebbe essere – come sta chiedendo anche la Cei al governo – la strada giusta per riaprire al pubblico le Messe nella cosiddetta fase 2? Se non sbaglio, era una delle opzioni che anche la vostra Diocesi aveva preso in considerazione all’inizio dell’emergenza, prima del lockdown generale.

Certamente. Bisognerà capire quali saranno le richieste indicate come indispensabili per contrastare il contagio e poi attrezzarsi di conseguenza. Sono problemi che possono essere affrontati, penso con senso di responsabilità delle comunità e anche delle persone stesse. Non dobbiamo dimenticare che avere attenzione al prossimo è un atto di carità! Abbiamo tutti i mezzi, o li troveremo, per garantire la sicurezza. È nostro interesse! Mi sembra peraltro che la gente abbia più paura e che gli sconsiderati che mettono in pericolo se stessi e gli altri siano molti meno rispetto a quanti sono prudenti, preferiscono aspettare prima di rischiare.

Specialmente all’inizio dell’emergenza – quasi a voler smorzare la paura del virus – molti hanno sostenuto a mo’ di rassicurazione che a morire sarebbero stati solo gli anziani. A proposito di questa tendenza, qualcuno ha parlato di deriva eutanasica. Il coronavirus ha incentivato la “cultura dello scarto”?

Penso che il coronavirus ha mostrato quanto era diffusa già la cultura dello scarto, purtroppo! Quella dello scarto è la vera cultura eutanasica, la più pericolosa perché premessa di quelle scelte operative. Possiamo accettare che l’età sia motivo per condannare una persona a non essere curata? Era incredibile come sembrava poco importante il virus proprio perché in fondo riguardava piuttosto i vecchi! Forse qualcuno ricorda una vignetta di Giannelli fulminante che raffigurava due anziani attoniti che guardavano la televisione che commentava, appunto, ”non vi preoccupate, colpisce gli anziani!”. Quello che è successo in molte case di riposo e Rsa in tutto il territorio nazionale ci deve aprire interrogativi seri, da non risolvere con superficialità e richiede uno sforzo di tutti per risposte adeguate a difesa della vita.

Lei ha spronato l’Europa ad essere più solidale. L’Europa è nata sulla solidarietà e le prime crepe nel processo d’integrazione continentale sono comparse – penso alla crisi greca – proprio quando ci si è dimenticati di questo. Cosa rischiamo se i governanti europei non faranno tesoro degli errori fatti nel recente passato?

Mettono in discussione la credibilità stessa dell’Europa, tradiscono i principi fondativi e giustificano di fatto l’idea, per me sbagliata, che le soluzioni si trovano chiudendosi, affermando la propria diversità senza però cercare contemporaneamente di fare funzionare gli indispensabili meccanismi unitari. E poi se è una pandemia ha senso credere sufficiente una soluzione che non coinvolga anche i vicini di casa? Credo non dobbiamo perdere la consapevolezza che su questo deve crescere la collaborazione e il dialogo tra i Paesi. E manca davvero tanto.

Eminenza, si dice che “andrà tutto bene” e tutti ci diamo appuntamento ad un ipotetico domani quando tutto questo sarà finito, dandolo per scontato ed anche per imminente. Ma chi ci dice che andrà davvero così? E non Le pare che, mai come in questo caso, una parte della società voglia relegare la fede a “servizio non essenziale”, tanto per citare le autocertificazioni con cui ormai abbiamo preso confidenza?

Purtroppo una parte della società già reputa, e non da adesso, che la fede sia un fatto privato, individualizzato e che non deve dire niente alla città degli uomini. Qualche volta i cristiani sono i primi ad essere relativisti. Per questo le indicazioni così forti pastorali e missionarie di papa Francesco sono decisive, perché ci costringono a trovare le categorie per comunicare l’amore cristiano che gli uomini di oggi comprendono. Attenzione: non dire quello che gli uomini di oggi si vogliono sentire dire, ma comunicare facendoci capire e rispondendo alle domande che hanno nel cuore. E soprattutto iniziare a camminare con loro, perché il Vangelo si comunica così, come diceva papa Benedetto, è un incontro, è attrazione. E questi sono concreti, non virtuali! E quando parla di pelagianesimo e di gnosticismo stigmatizza dei rischi importanti tra i cristiani. C’è una grande domanda di senso che è emersa, forse contraddittoria, basica, ma chiarissima: la morte, la vulnerabilità, il confronto con il male, il limite, la solitudine, sono interrogativi che erano nascosti o narcotizzati dal consumismo e dal relativismo. Credo sia una grande occasione per rispondere che non basta l’ottimismo dell’andrà tutto bene, affermazione che va bene per rassicurare i bambini, giustamente, ma terrorizza un uomo saggio! Dobbiamo farlo però non con la faccia del fratello maggiore ma con l’abbraccio del Padre misericordioso! Anche perché per tanti non è affatto andato tutto bene, non andrà tutto bene (penso alla povertà che già tanti vivono e alle conseguenze del male che dureranno a lungo). I credenti hanno molto da dire e soprattutto da vivere in un’epifania del male: mostrare tutta la forza e la presenza di Cristo nella vita e nelle scelte che aprono alla speranza, far capire che Gesù è un fatto, un incontro nella storia e nella storia personale di ognuno.


×

Iscriviti alla newsletter