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Afghanistan senza pace. Ecco cosa succede fra negoziati e attentati terroristici

Se non fosse per la stretta cronaca legata a fatti eclatanti — come lo spietato attentato contro una nusery pochi giorni fa, a Kabul — l’Afghanistan sarebbe uscito dai riflettori della stampa. Eppure è un dossier sensibile, dal valore strategico perché punto di passaggio di dinamiche geopolitiche che coinvolgono Stati Uniti, Russia, Iran e Cina; e dall’enorme valore securitario perché nel Paese non c’è pace, e i gruppi terroristici sono attivi.

L’attacco contro il reparto maternità (gestito da Medici senza frontiere) nella capitale non è stato rivendicato ancora — è probabilmente troppo atroce anche per un gruppo che rivendica la propria spietatezza con orgoglio come lo Stato islamico del Khorasan, spin-off locale dell’organizzazione baghdadista. L’IS ha però rivendicato un attacco avvenuto lo stesso giorno, quasi in contemporanea a Jalalabad: oltre venti morti quando un attentatore suicida s’è fatto esplodere durante il funerale di un ufficiale di polizia.

Il governo ha reagito in modo scomposto, annunciando la fine della “difesa attiva” e il riavvio della fase offensiva contro i talebani, l’altro grande gruppo combattente che però ha subito dichiarato la propria innocenza riguardo al duplice accaduto.

Il presidente Ashraf Ghani è nervoso. Gli Stati Uniti — per netta volontà trumpiana di lasciare un segno nella storia, per seguire la traiettoria della strategia della contrazione, per sfinimento davanti alla lunghezza bi-decennale della guerra iniziata dopo il 9/11, per il peso politico di più di 2800 vittime americane sul campo — hanno cercato, e trovato, una via di accordo con i ribelli. I taliban otterrebbero un riconoscimento de facto, tanto che tra le varie cose sarebbero inclusi nella nuova forma di war on terror contro i baghdadisti (che sono nemici, e considerano i talebani, ispiratori e collegati ad al Qaeda, come takfiri, miscredenti da uccidere).

Ma i contatti, in cui il governo è stato scavalcato per volontà talebane e accettazione americana, non vanno benissimo – e nemmeno bene. In questi giorni, per esempio, doveva iniziare il gigantesco scambio di prigionieri parte dell’intesa trovata con gli Usa, ma la situazione si è incastrata sulla non trasparenza talebana e la logica sfiducia dell’amministrazione afgana. Il governo avrebbe dovuto liberare circa cinquemila combattenti (che forse sarebbe bene inquadrare: sono miliziani appartenenti a un gruppo islamico radicale con pretese territoriali che usa tra le proprie armi il terrorismo). I talebani poco più di un migliaio tra membri delle forze di sicurezza e civili rapiti nei giorni in cui si chiudeva l‘intesa con gli Usa per far sembrare più allettante l’accordo.

Ora che Ghani ha rilanciato l’offensiva, tutto sembra ancora più complicato. Il presidente accusa il gruppo ribelle di seminare il caos, che in un humus instabile come la società afghana, ridà come frutto il terrorismo. I talebani sono un gruppo combattente e in quanto tale la reazione non poteva non arrivare: hanno subito dichiarato di rispondere alle armi con le armi, e fatto esplodere mercoledì un camion bomba davanti a una caserma a Gardez, nell’est del Paese. Il portavoce dei talebani, Zabihullah Mujahid, ha rivendicato l’azione. Mujahid è stato uno dei leader che ha condotto il dialogo con gli Usa ed era presente a Doha, il 29 febbraio, per raccontare alla sua gente la firma dell’accordo. Che d’altronde prevedeva l’impegno a non attaccare le forze americane e Nato presenti sul territorio afghano, a non affiliarsi ad altri gruppi jihadisti (ossia sganciarsi da al Qaeda) e a combattere l’Is – ma non a sospendere le azioni contro le forze governative, che da fine febbraio infatti sono aumentate.

Il punto è se i talebani siano intenzionati realmente al negoziato, e a quanto pare la risposta non è positiva. La faccenda dello scambio dei prigionieri è emblematica. Daniele Raineri sul Foglio l’ha fotografata: “Tutto doveva concludersi entro il dieci marzo, ma gli estremisti tergiversano, chiedono di più, ritardano le liberazioni, vogliono la scarcerazione di quindici capi molto importanti e le cose stanno andando per le lunghe”. Come spiegato mesi fa a Formiche.net dall’analista italiano Claudio Bertolotti, tra i massimi esperti in Europa sulla situazione afghana, a Kabul è in corso una crisi istituzionale, inasprita dalle presidenziali di settembre scorso, che l’accordo Usa-Taliban non ha appianato. Tutto pesa sul processo di contatto con in taliban e favorisce il caos nel Paese. Sia Ghani che il suo contender, Abdullah Abdullah , hanno rivendicato la vittoria: nell’equilibri(sm)o sul potere i due hanno trovato un punto di incontro su ruoli che sembrano più quelli di un’azienda che di un governo, Ghani è il chairman, Abdullah il ceo (per definizione istituzionale).

Nei giorni successivi al massacro di neonati, puerpere e sanitari dell’ostetricia di Kabul, il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, ha sottolineato che i talebani si erano dissociati dall’attentato, e ha ribadito che “sono partner negoziali in buona fede”. Un layer ulteriore sulla crisi istituzionale, dove l’amministrazione di Kabul rilancia le azioni di attacco contro un’organizzazione che il suo principale partner considera un interlocutore.

Come sottolineato in un’analisi delle notizie fatta dall’Ispi Giuliano Battiston, giornalista italiano esperto internazionale di Afghanistan, “l’attentato ha [avuto] un duplice obiettivo: colpire la comunità hazara, la minoranza sciita del Paese, maggioritaria nel quartiere dell’ospedale, e provocare il caos, indebolendo il governo e il processo di pace”. Il punto sostanziale è però il ritorno all’attacco delle forze governative, nonostante i talebani non abbiano rivendicato l’azione nell’ospedale, che per Battiston è “un modo per riguadagnare terreno, nel caso di futuri negoziati, e per rispondere alle richieste della popolazione, abituata alla guerra, ma incredula di fronte alla strage di neonati e donne partorienti”.

 

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