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Da Berlusconi a Di Maio, come cambia la credibilità politica. Intervista a Guido Gili

Nell’epoca in cui la credibilità assume contorni sempre più foschi e lo scollamento fra governanti e governati appare quasi incolmabile, urge interrogarsi sugli errori fatti nel passato e, ancor di più, su come evitarli in futuro. Un manuale utile per compiere questo percorso può senz’altro essere il recentissimo saggio scritto a quattro mani dal sociologo Guido Gili e dall’esperto di marketing e campaigning politico Massimiliano Panarari, La credibilità politica. Radici, forme, prospettive di un concetto inattuale, edito da Marsilio.

Negli ultimi anni, come raccontate nel vostro nuovo volume, sembra esserci una sempre più forte crisi di credibilità dei leader politici. Al contempo, assistiamo a una riduzione, seppure apparente, della distanza fra leader e cittadini. Possiamo sostenere che le due cose sono in qualche modo legate? E se sì, in che modo? Qual è la causa e quale l’effetto?

Sicuramente esiste una relazione tra questi due fenomeni. La strategia della riduzione delle distanze tra leader e pubblico, così ricercata nella politica attuale, non è priva di rischi. Il sociologo Joshua Meyrowitz ha osservato, a questo proposito, che nelle società liberal-democratiche i leader politici non hanno scelta: devono sottostare alla legge della visibilità attraverso i media. Lo scrittore e ricercatore francese Christian Salmon, che ha introdotto nel dibattito pubblico la categoria di storytelling applicata alla politica, ha notato, a sua volta, che per le classi politiche della postmodernità esiste una sorta di relazione di proporzionalità inversa tra leve reali ed effettive di policy e la presenza sui media: tanto minore è il controllo delle prime, tanto più intensa deve essere la seconda. La visibilità è diventata un imperativo nella democrazia mediatica a cui non ci si può sottrarre. Sottomettersi a questa regola, va detto, non è però solo un dovere e una necessità: sia i primattori sia le seconde e le terze file della politica ricercano attivamente la notorietà e il prestigio conferiti dalla presenza nei media.

E come ha ingerito, questo, sulla credibilità dei politici?

La visibilità attraverso questo tipo di media ha spostato, e non di poco, il criterio del giudizio da parte del pubblico. La credibilità non riguarda più esclusivamente la competenza politica o l’abilità nell’argomentare, ma la totalità delle caratteristiche personali. E in questo spostamento acquista rilevanza la dimensione del rapporto affettivo/emotivo tra leader e cittadini.

Con quali rischi, se ce ne sono?

Certo, ed è questa l’altra faccia, meno piacevole. In questo rapporto più ravvicinato il pubblico può vedere e scrutare “da vicino” il politico, il quale invece non è in grado di conoscere e valutare immediatamente le reazioni che il suo comportamento suscita nel pubblico. Il rischio è che l’esposizione ravvicinata attraverso i media audiovisivi e i social network contribuisca alla sua desacralizzazione poiché porta sulla ribalta ciò che prima era confinato nello spazio del retroscena, ricollocando in qualche modo il leader al livello delle persone comuni.

Un’arma a doppio taglio, quindi?

Assolutamente sì. La visibilità mediatica può produrre un profitto in termini di notorietà e diffusione delle proprie idee, ma espone al tempo stesso i leader politici al rischio di un limitato controllo della propria immagine e delle impressioni del pubblico. L’immagine che vogliono trasmettere può sfuggire loro di mano; le performance negative, riprese in diretta, possono essere viste e ascoltate da milioni di spettatori, analizzate, commentate e ritrasmesse infinite volte a un pubblico di riceventi sempre più vasto.

Con delle conseguenze, immagino, sugli elettori…

Certo che sì. In sintesi, l’eccessiva “vicinanza”, consentita dai media facilita una relazione “affettiva” tra leader e cittadini, ma espone la figura del politico al rischio di banalizzazione. Di fronte a deludenti performance televisive o sui social, uno spettatore-follower-elettore può pensare: “non è meglio di me, forse è peggio”. Per cui potrebbe chiedersi legittimamente: “perché allora dovrei votarlo, perché dovrebbe parlare per me o prendere decisioni al mio posto?”. Torna così d’attualità il vecchio detto hegeliano secondo cui nessuno è un grand’uomo per il suo cameriere. I leader politici, accettando e spesso ricercando la sfida della visibilità mediatica, devono essere consapevoli di essere alla mercé di milioni di camerieri! Con tutti i rischi che ciò comporta.

Credibilità, fiducia e reputazione possono essere considerati sinonimi? O non in politica?

Quello della reputazione in politica è un tema importante. La credibilità ha sempre come punto di partenza un’apertura di credito, una promessa da parte di chi parla e un’attesa, un’aspettativa da parte del destinatario. Come ha osservato il sociologo tedesco Niklas Luhmann, la credibilità si basa necessariamente su qualche informazione preliminare sul soggetto che si propone come credibile, senza la quale non si potrebbe ottenere alcuna fiducia, ma, al tempo stesso contiene sempre uno “scoperto” di informazione, che ne rappresenta il limite e il rischio costitutivo. Per questo la credibilità-fiducia devono continuamente trovare dei riscontri, hanno bisogno di prove e di conferme. La reputazione è proprio questo: è la “credibilità provata”, che si è consolidata nel tempo attraverso l’accumulazione della fiducia ben riposta e quindi premiata.

Anche in politica?

La reputazione, in politica come in altri campi, presenta quattro caratteristiche principali: si basa innanzitutto su elementi fondati e certi di cui il destinatario ha diretta conoscenza o che ricava da fonti attendibili e veritiere; si forma e si consolida solo con il passare del tempo attraverso numerose conferme e si accresce attraverso queste conferme; è “pubblica”, nel senso che è oggetto di un riconoscimento largamente condiviso; è “resistente” e modificabile solo lentamente: la buona o la cattiva reputazione non possono essere generalmente modificate in modo repentino attraverso operazioni superficiali e di semplice immagine.

Ovvero?

Ovvero non basta un’efficace azione comunicativa per invertire, in un senso o nell’altro, la reputazione di un candidato o di un gruppo politico. Del resto, neppure lo spin doctoring e la black propaganda sono mai stati davvero in grado di sovvertire contesti di reputazione politica sotto il profilo della ricerca dei voti o della costruzione di climi alternativi di opinione. Anche la web reputation sembra andare in questa direzione, poiché lo stratificarsi e il consolidarsi di una buona immagine richiede un’intensa e prolungata attività, volta anche a pianificare in anticipo quanto più possibile eventuali atti ostili, azioni di denigrazione o di diffamazione, e a monitorare costantemente l’insorgere di evenienze negative o danni d’immagine.

È più facile che un soggetto credibile perda credibilità se affiancato da un soggetto privo della stessa, o che un soggetto privo di credibilità ne assuma se affiancato da un soggetto credibile?

Quello del trasferimento della credibilità – o accreditamento – è un tema molto interessante. La nostra tesi è che poiché la credibilità non è una caratteristica intrinseca del soggetto, ma è una relazione, può essere in qualche modo trasmessa da un soggetto all’altro. Più precisamente: se io sono credibile per un certo numero di persone, posso, grazie alla mia credibilità, farmi garante della credibilità di un altro. Costui potrà così diventare anch’egli credibile per le persone per cui io sono credibile. Va detto però che il trasferimento di credibilità da un capo politico ad altri, quale che sia la forma che assume, rimane sempre un processo difficile e dagli esiti incerti.

Qualche esempio?

La storia recente dell’America Latina: possiamo pensare alla successione di leader molto amati e ingombranti come Peron in Argentina, Castro a Cuba o Chavez in Venezuela. Nel contesto italiano possiamo ricordare l’investitura da parte di Grillo di Luigi Di Maio quale capo politico del Movimento 5 Stelle, poi ratificata a grande maggioranza dai militanti sulla piattaforma Rousseau, e in precedenza, la lunga sequenza di delfini indicati più o meno esplicitamente da Berlusconi, che si è però immancabilmente rivelato una sorta di Crono che divorava infine i suoi figli. L’investitura costituisce sempre una nomina dall’alto, per cui colui che è nominato resta sempre in qualche modo dipendente da chi lo ha investito. Per questo è importante che il successore guadagni presto una propria solida credibilità, grazie alla quale uscire dal cono d’ombra di colui che gli ha conferito originariamente questa credibilità riflessa.

La credibilità può essere trasmessa solo tra gli individui?

No, la credibilità può anche essere trasferita da un individuo a un’organizzazione politica o viceversa. Per gran parte del Novecento il trasferimento di credibilità avveniva perlopiù dal partito all’esponente politico che ne faceva parte. Nel corso degli ultimi decenni si è assistito sempre più alla situazione inversa per cui i partiti si sono messi alla ricerca di personaggi pubblici che disponessero di prestigio e notorietà per rendersi più credibili presso gli elettori.

Un esempio?

Basti pensare a Pannella, che con un’astuta e felice intuizione arruolò come presidente del Partito Radicale il famoso e ormai anziano cantautore Domenico Modugno, ma candidò anche – con non minore intuito nel cogliere gli umori popolari – la pornostar Ilona Staller, poi eletta in Parlamento. Quando Berlusconi lanciò Forza Italia nel 1994 chiamò molti importanti intellettuali di area liberale, come Melograni, Vertone, Urbani e Martino.

Costruzione del nemico e credibilità. Chi è riuscito meglio in questa “arte”?

Per distruggere la credibilità dell’avversario si può ricorrere a quella strategia che gli analisti politici chiamano costruzione del nemico, che consiste nel creare un’immagine negativa, odiosa o caricaturale dell’avversario, mirando a screditarlo. Il caso più significativo è costituito dalla propaganda bellica, che ha realizzato un decisivo salto di qualità nel conflitto mondiale del 1914-18, la prima guerra totale nella quale sono state coinvolte e mobilitate anche le popolazioni civili. La contrapposizione delle forze in campo assunse una connotazione morale di bene-male, giusto-ingiusto, diritto-prevaricazione, verità-menzogna. Vi fu poi una forte personalizzazione: i valori e i disvalori morali contrapposti dovevano apparire incarnati nelle figure dei leader: come i leader della propria parte diventavano degli eroi, così i capi della parte avversaria assumevano caratteri demoniaci.

Ma non riguarda solo la guerra…

Assolutamente no. Anzi, è un aspetto permanente anche della lotta politica. La cui forte personalizzazione si è riprodotta anche nella costruzione del nemico.

Un esempio Made in Italy?

A partire dalla campagna elettorale del 1994, la concorrenza per la credibilità ha assunto un carattere personale con la discesa in campo di Berlusconi. Da allora si è fatta molta strada, e non in meglio. Come confermano i dati del “Barometro dell’odio”, l’indagine condotta sulla campagna elettorale per le politiche 2018 da Amnesty International che ha monitorato i social network dei partiti, molti politici ha fatto ricorso all’hate speech e in rete è stato riversato mediamente un insulto contro un avversario ogni ora. Ma il campionario è nutritissimo, e non riguarda esclusivamente l’utilizzo del web: Berlusconi, man mano che le consultazioni post-voto andavano per le lunghe, ha detto dei 5 Stelle: “È gente che non ha mai fatto nulla nella vita: nella mia azienda li prenderei per pulire i cessi” e, in precedenza, aveva ripetutamente apostrofato Luigi Di Maio come una “meteorina”. Alessandro Di Battista, prima della formazione del governo giallo-verde si è rivolto al di lì a poco alleato di governo leghista, Salvini, dicendo che era come il cane Dudù di Berlusconi. L’epiteto di “psiconano” affibbiato da Grillo a Berlusconi è notissimo, così come quelli che il “garante” dei 5 Stelle ha riservato a Renzi, definendolo di volta in volta: “minorato morale”, “il nulla che parla”, “pollo che si crede un’aquila”. A pareggiare i conti da parte del Pd ci ha pensato il governatore della Campania, Vincenzo De Luca, il quale ha accomunato Di Maio, Di Battista e Fico nell’elegante etichetta di «tre mezze pippe».

Ma allora, chi è credibile oggi? Nel panorama politico nazionale e internazionale, quali leader possiedono credibilità? E chi rischia di implodere perché questa credibilità non è costruita su basi solide?

Non è compito di chi studia la comunicazione e la politica di dare patenti di credibilità. Piuttosto credo sia importante delineare i caratteri di questa figura. Poi ogni lettore o lettrice potrà verificare quali figure politiche concrete rispondono per lui/lei a queste caratteristiche.

Ovvero? Di che caratteri parliamo?

Nel nostro libro, Panarari ed io abbiamo descritto tre grandi radici o ancoraggi della credibilità, che valgono sia nella vita quotidiana sia nella politica.
La prima radice è costituita dalla conoscenza/competenza: è la credibilità di cui gode colui che sa quel che dice e quel che fa e ne è pienamente responsabile e negli elettori genera stima.
La seconda radice è legata ai valori: è la credibilità che le persone riconoscono a chi incarna quei modi ideali di essere e di agire politicamente che anch’esse reputano buoni, giusti, desiderabili. Questa genera invece sentimenti come il rispetto.
La terza radice della credibilità, infine, è costituita dall’attaccamento e dal legame affettivo, che in politica si esprime soprattutto nel legame tra leader e seguaci e genera immedesimazione.
Ma c’è anche una condizione fondamentale del riconoscimento, messa in luce dal filosofo e sociologo Axel Honneth, che oggi assume un significato e un valore molto importante: il riconoscimento non può essere unilaterale e asimmetrico, dalla base al vertice e dalla periferia al centro, ma deve assumere un carattere di reciprocità. Il riconoscimento che il leader politico chiede ai cittadini deve, cioè, essere accompagnato dalla capacità di riconoscimento da parte del leader delle richieste e delle esigenze di coloro che hanno riposto la loro fiducia in lui.

Nel vostro libro parlate anche di un ritorno del valore (e della retorica) della comunità in politica. Di che si tratta?

Sì, questo è un punto importante. Quando la vita politica democratica mostra segni di stanchezza o percorre chine pericolose, oltre al bisogno di grandi leader riemerge la voglia della comunità. “Non siamo un movimento, noi siamo una comunità”, ha gridato Beppe Grillo in uno dei suoi comizi-spettacolo in piazza per rivendicare la diversità del Movimento 5 Stelle rispetto ai partiti tradizionali. In un’intervista che prendeva spunto dall’Enciclica Laudato si’ di Papa Francesco, il fondatore di Slow food Carlo Petrini ha affermato che il mondo odierno non ha bisogno di partiti, ma di comunità. Il presidente Mattarella nel messaggio di Capodanno 2019 ha invitato gli italiani a sentirsi una comunità, capace di “condividere valori, prospettive, diritti e doveri”. Sono solo alcuni esempi tra i tanti che si potrebbero fare per illustrare una tendenza molto più vasta e profonda. La parola comunità è una parola difficile poiché è stata assunta dentro tradizioni politiche e culturali diverse, anche opposte, ma il nucleo comune del concetto, è di riferirsi a un particolare tipo di legame tra le persone. La relazione comunitaria, come ha chiarito uno dei suoi principali teorici, Ferdinand Tönnies, si caratterizza per la centralità dell’aspetto della coesione e del comune sentire, per cui il suo valore sta nella particolare qualità del legame che si viene a creare tra le persone. Due aspetti appaiono determinanti: l’unità di intenti e la relazione diretta e tendenzialmente caratterizzata da simmetria e reciprocità.

Ma perché oggi è riemersa questa voglia di comunità?

Non è una questione solo politica. I processi di individualizzazione, burocratizzazione e globalizzazione che caratterizzano il nostro tempo, tendono a far sì che l’individuo si senta sempre più solo e irrilevante di fronte ai poteri, spesso invisibili, che governano la società. Per questo c’è bisogno di legami che diano senso alla vita, non solo alla politica. Come hanno rilevato alcuni studiosi, c’è di nuovo bisogno di un focolare, un centro di relazioni nel quale riconoscersi e riscaldarsi. Il bisogno di comunità è una risposta a tutto questo.

Con quali rischi?

Il principale è il tribalismo. La sua essenza, come diceva Popper, è la chiusura e l’esclusività. In questo caso i gruppi sociali mantengono la loro coesione e unanimità grazie al principio di somiglianza o di omofilia, per il quale il simile riconosce e accetta il simile. Quando ciò accade, si creano delle fratellanze o delle amicizie selettive e chiuse, che includono alcuni ed escludono altri. E la sfera pubblica diventa un terreno di contrapposizione tra tante nicchie e sfere di significato autonome, richiuse su se stesse e nemiche, che non sanno incontrarsi e dialogare tra loro.

Ma allora di quali comunità ha bisogno la democrazia?

Una società democratica e pluralista ha bisogno che tra Stato, grandi organizzazioni pubbliche e private, grandi media e singoli cittadini esista un ricco strato di gruppi primari, di comunità, di associazioni di tipo religioso, politico, sindacale e territoriale, di media di tipo comunitario – i cosiddetti “corpi intermedi” – in cui le persone possano incontrarsi e riconoscersi, confrontarsi e discutere tra loro. Queste forme comunitarie e associative, come osservava Tocqueville, sono necessarie per “rinnovare la circolazione dei sentimenti e delle idee” all’interno della società. E sono il terreno in cui si alimenta la partecipazione sociale e politica.


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