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Biosicurezza, perché serve una strategia nazionale. I consigli di Amorosi

Le agenzie di intelligence americane, seguendo quello che viene indicato come “un ampio consenso scientifico”, hanno chiuso il capitolo secondo cui il coronavirus potesse avere origine artificiale, creato in un laboratorio di Wuhan. L’affermazione, che va contro uno dei lanci anti-Pechino del presidente Donald Trump, non è superflua: secondo un sondaggio Swg, il 16 per cento degli italiani crede che il virus sia stato creato. Una percentuale ancora più alta invece, il 31 per cento, ritiene che sia sfuggito dal controllo del laboratorio in cui veniva studiato – circostanza che le agenzie di intelligence statunitensi non hanno comunque escluso. 

Ossia, il tema che si fa largo è quello della biosicurezza, elemento che amplifica il proprio valore con la cosiddetta “Fase 2”, quella delle riaperture, ossia il riavvio verso una forma di normalità e soprattutto la costruzione di un futuro in cui certi “eventi possono accadere in ogni momento, e dunque un Paese deve essere attrezzato per affrontarli. Non parliamo del valore statistico, ma possiamo essere certi che prima o poi in futuro si riaffacceranno minacce biologiche emergenti“, spiega a Formiche.net Massimo Amorosi,  esperto di studi strategici, già consigliere della Farnesina per biosicurezza e minacce Cbrn, acronimo che raccoglie le sfide chimiche, biologiche, radiologiche e nucleari.

È uno scenario quello che si prospetta di “bio-insicurezza ormai su scala globale“. Dice Amorosi: “I governi devono mettere in conto che per preservare i livelli di prosperità dei rispettivi Paesi – intesa come salute pubblica, ma anche resilienza economica e stabilità interna – occorre fare i conti con questo problema. E serve “un cambio di approccio radicale, un cambio di paradigma, dalla portata anche culturale”. “Occorre ora – continua l’esperto – una strategia nazionale di biodifesa che tenga conto del fatto che le minacce biologiche emergenti possono avere un’origine naturale, accidentale, oppure deliberata. E questi eventi possono essere molto simili in termini di preparazione e meccanismi di risposta, a prescindere dalla loro origine”.

Il quadro è ampio: “Il 75 per cento delle malattie emergenti sono di origine animale, mentre l’80 per cento degli agenti patogeni classificabili per un potenziale uso bioterroristicosono zoonosi, ossia malattie trasmissibili dall’animale all’uomo, ricorda Amorosi. La comparsa di malattie emergenti e riemergenti è poi favorita da certi acceleratori tra i quali il fattore antropico e il sovrapporsi di una serie di concause – come la crescente urbanizzazione, la crescita della popolazione, e la modifica degli ecosistemi.

Aggiunge Amorosi, “che i fenomeni naturali possono essere riprodotti in laboratorio con animali o colture cellulari. Si assiste ormai da diversi anni inoltre ad una proliferazione verticale e orizzontale di laboratori del tipo Bsl 3 e 4 (come quello di Wuhan, ndr), ossia di strutture in cui si effettuano manipolazioni ad alto rischio o a rischio molto elevato di microrganismi. Chiaro, nei laboratori si portano avanti legittimamente ricerche a beneficio della salute pubblica, però le stesse ricerche possono, in talune circostanze, aumentare i livelli di insicurezza. Soprattutto in contesti locali in cui non vi sono protocolli di bio-contenimento o di biosicurezza adeguati. È il cuore del problema delle ricerche ad uso duale“.

“Agenti patogeni che sono all’origine di malattie – precisa l’esperto – possono essere modificati per incrementare la loro virulenza o trasmissibilità, o ancora espandere l’host range, ossia la capacità di un microrganismo di aggredire una sola specie o un numero più elevato di ospiti”.

La scarsa capacità di gestire alcune tecnologie può derivare dalla mancanza di training o negligenza ad esempio nei processi di smaltimento di certi rifiuti biologici”. Eancora? “Un altro aspetto da comprendere è il livello di management in taluni laboratori. Come il personale viene impiegato, il tipo di know-how, il livello di condivisione delle informazioni. E poi bisogna accendere i radar sulle partnership internazionali: perché, in determinate circostanze, potresti agevolare trasferimenti di conoscenze verso Paesi in cui la cultura e l’esperienza nel settore della biosicurezza non sono per nulla ottimali. Si potrebbero creare così ulteriori scenari di rischio”, spiega Amorosi.

Accertato dunque che lo scenario è assolutamente ripetibile, cosa fare? “Diciamo che dobbiamo eliminare certe barriere istituzionali, perché la tematica non è appannaggio di qualcuno e a discapito di qualcun altro. Dunque, accanto all’analisi tecnico-scientifica ci deve essere un’analisi di situazione. E questi due piani devono essere integrati: lo scopo è fare sorveglianza e prevenzione, per poi attivare nel caso misure puntuali di contrasto. Ma serve cambiare modelli organizzativi e metodologie, mettendo a sistema le conoscenze. Cooptando la comunità scientifica e mettendo insieme attori diversi per addivenire ad analisi di contesto. Ossia, occorre disporre di un’organizzazione strategica di biodifesa rispetto a rischi biologici emergenti“.

La crisi prodotta dal coronavirus ci ha messo davanti agli occhi come questo approccio multidisciplinare ai bio-rischi sia un elemento fondamentale per la pianificazione strategica dei Paesi, e non a caso la Cina l’ha incluso nella narrazione con cui ha avviato il rilancio – anche propagandistico – del Dragone, con il Sars CoV2 che è dilagato da Wuhan e ha messo in crisi l’economia e la stabilità internazionali.

Amorosi precisa un aspetto centrale per la pianificazione futura: “Dobbiamo scongiurare il rischio di inserire i fenomeni connessi ai biorischi all’interno della categoriadelle minacce ibride, poiché le minacce biologiche hanno caratteristiche proprie e ben distinguibili, che richiedono strategie mirate. Non possono essere inserite in categorie fumose e indistinte, l’ambiguità è ciò che meno serve adesso. Dobbiamo dunque smetterla di pensare a compartimenti stagni, ma agire ad ampio spettro. L’assenza di processi e strumenti volti a far fronte all’identificazione precoce delle minacce biologiche emergenti e alla loro diffusione tra la popolazione, che può mettere in ginocchio non solo il sistema preposto alla salute pubblica, ma l’intera catena produttiva di un Paese, la sua socialità e le sue attività politico-istituzionali, esige iniziative che non sono più rinviabili“.



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