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Chi era (e cosa faceva a Tel Aviv), l’ambasciatore cinese morto in Israele

L’ambasciatore cinese, Du Wei, è stato trovato morto nella sua casa a nord di Tel Aviv. Du Wei viveva a Herzliya, nell’hinterland settentrionale di Tel Aviv – una zona piena di start up tecnologiche dove vivono diverse feluche, tra cui anche l’ambasciatore americano (nonostante la sede sia stata spostata a Gerusalemme). Secondo la Radio dell’Esercito, non ci sono segni di violenza sul corpo.

Mentre la notizia era battuta dalle agenzie internazionali e ripresa dai principali quotidiani israeliani, e il direttore generale del ministero degli Esteri israeliano diceva di aver espresso le proprie condoglianze in una telefonata al suo omologo cinese, dall’ambasciata cinese in Israele non veniva confermata nemmeno davanti alle richieste esplicite dei media.

Circostanza che non ha fatto altro che aumentare il mistero su una situazione delicata come la morte improvvisa di un diplomatico importante in un Paese straniero – di più, in un Paese delicato per tanti aspetti come lo Stato ebraico. Il vice-inviato diplomatico cinese ha tenuto una conferenza stampa un paio di ore dopo la notizia.

Non sono note le cause del decesso, ma secondo quanto riferito da Ynet potrebbe essere stato un arresto cardiaco, confermato anche da Haaretz attraverso fonti tra i paramedici. L’ambasciatore sarebbe stato trovato morto sul letto dal suo assistente, preoccupato perché non lo vedeva uscire dalla residenza come di solito. La polizia israeliana ha aperto un’inchiesta per comprendere le cause delle morte.

Cinquantotto anni, l’ambasciatore era arrivato in Israele a febbraio dopo tre anni di esperienza in Ucraina. Ancora non era stato seguito dalla sua famiglia (la moglie e il figlio) a causa dei blocchi di viaggio imposti dall’epidemia della coronavirus.

Proprio l’epidemia l’aveva reso famoso rapidamente in Israele e non solo: pochi giorni dopo essere arrivato nel Paese, infatti, aveva firmato un op-ed sul Jerusalem Post in cui scriveva che “senza le azioni risolute della Cina, la cooperazione trasparente e l’enorme sacrificio della sua gente, l’epidemia sarebbe stata molto più disastrosa”.

Ossia, Du seguiva una delle forme di revisionismo sulla pandemia che da inizio marzo la Cina ha iniziato a promuovere all’estero per accreditarsi come Paese “salvatore” nella crisi. Strategia che il segretario del Partito comunista, il capo dello stato Xi Jinping, ha avviato su un doppio binario: la diplomazia della mascherine e degli aiuti, e l’attività delle ambasciate.

Venerdì Du ha pubblicato un messaggio sul sito web dell’ambasciata cinese, respingendo in forma diretta le accuse di insabbiamento del virus avanzate da parte del segretario di Stato americano, Mike Pompeo.

Il capo della diplomazia Usa mercoledì era Gerusalemme e mentre parlava in conferenza stampa con Benjamin Netanyahu – che oggi dovrebbe partire a guidare il nuovo governo di coalizione con Benny Gantz – aveva sottolineato come Israele fosse un Paese trasparente, a differenza di altri. Riferimento ovvio alla Cina, che è sotto un barrage politico e informativo da parte dell’amministrazione Trump, che chiede a Pechino conto della crisi epidemica.

L’ambasciata cinese in Israele ha affermato che Pompeo ha etichettato per anni prodotti, investimenti e persone cinesi come rischi per la sicurezza senza produrre prove a sostegno delle sue affermazioni. “Confidiamo che i nostri amici ebrei non siano solo in grado di sconfiggere il coronavirus”, ma anche il “virus politico e scegliere la linea d’azione che meglio soddisfa i suoi interessi”, ha detto nella nota di venerdì Du.

Israele è territorio di scontro tra Cina e Stati Uniti: i primi hanno investito molto nel Paese, inserendosi all’interno di progetti strategici come il porto di Haifa; gli americani vogliono invece tenere vivo il rapporto sinergico con uno degli alleati storici. Anche per questo Pompeo era a Gerusalemme mercoledì, vigilia dell’avvio del nuovo governo (poi slittato a domenica).

(Foto: Facebook, China embassy in Israel)

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