Il 31 dicembre 2019 la World Health Organization, proprio dal suo ufficio cinese, viene informata ufficialmente dell’esistenza di alcuni casi di polmonite di eziologia sconosciuta avvenuti a Wuhan, nell’Hubei. Successivamente, le autorità cinesi identificano, per queste polmoniti, sempre dall’eziologia sconosciuta, un nuovo coronavirus, che viene isolato il 7 gennaio 2020.
Il 30 gennaio successivo, la Who dichiara una emergenza per la salute pubblica di ambito mondiale: il 16 di febbraio, infatti, i casi di coronavirus confermati in Cina sono ben 51.857 e i Paesi già colpiti dal virus, in quel momento, sono già 25. In quei giorni, i casi di morte sono 1.666 in Cina e solo 3 fuori da quel Paese. All’inizio della pandemia, segnato dalla dichiarazione del Who, i tecnici dell’agenzia dell’Onu, in Cina e altrove dichiarano ufficialmente che non è, a questo punto, prevedibile né la direzione, né la durata, lo scopo e il volume della pandemia stessa.
Certo è che le pandemie più recenti sono state, quasi tutte, originate in Cina: si ricordi qui la Sars del 2002-2003, il Mers-Cov (2012 e ancora debolmente diffuso) poi l’A/H1N1 tra il 2009 e il 2010, infine l’Ebola dal 2013 al 2016. Anche nel caso della Sars, peraltro, arrivarono dure critiche al governo cinese, visto che il primo caso fu registrato il 16 novembre 2002, e il Who fu informato solo il 14 febbraio 2003.
Fu proprio la Sars a dare l’inizio a una trasformazione radicale, e non solo nel settore sanitario, delle classi dirigenti cinesi. Certo è che, oggi, la dimensione economica e l’interazione tra Pechino e le altre economie sviluppate è ben maggiore di quella che potevamo studiare ai tempi della Sars.
Oggi, come è ben noto, la Cina è la seconda più grande economia del mondo, e il secondo maggiore importatore di beni globale, con un totale di 1.674 trilioni di dollari nel 2019, ed è all’origine del 13,7% delle esportazioni mondiali.
Per quel che riguarda le restrizioni derivanti dalla pandemia di Covid-19, esse hanno riguardato soprattutto la provincia dello Hebei, mentre 26 tra le 31 regioni cinesi hanno annunciato un fermo prolungato per le industrie non essenziali. Il Covid-19 si manifesterà soprattutto nei dati economici riguardanti il primo trimestre 2020, ma è possibile che anche il secondo trimestre venga chiaramente colpito, se il coronavirus dura, come accadde anche con la Sars, fino al maggio 2020.
Certo, il Pil del primo trimestre, in Cina, è calato del 6,8%, un dato di notevole rilievo. La caduta delle attività economiche è stata quindi grave e significativa. E colpisce uno degli asset primari del regime cinese: vi diamo, a voi cittadini del Celeste Impero, la crescita continua e stabile del Pil, l’arrivo a livelli di consumo e di vita prima inimmaginabili, ma voi dovete riconoscere il sistema politico e la sua gerarchia. Che non si discute.
Come reagirà, comunque, da quel che si intravede oggi, l’economia cinese al Covid-19?
Un primo effetto è stato l’aumento nettissimo della digitalizzazione. Un altro effetto, che si riscontrerà sempre di più anche nelle economie occidentali, sarà quello della diminuzione della esposizione esterna, quindi l’aumento di importanza percentuale e politica dei mercati interni, della finanza interna, della tecnologia autoctona.
La Cina non ha mai, peraltro, abbandonato del tutto al loro destino i mercati interni, diversamente da quello che hanno fatto molte economie occidentali, sempre più supinamente export-led.
Ma il processo di “ri-nazionalizzazione” dell’economia sarà ben visibile sia in Cina che in quei Paesi occidentali, come l’Italia, che hanno bloccato i loro mercati interni per correre fino in fondo l’avventura dell’export. Se in Italia ci sarà una classe dirigente, il che non è affatto detto.
Aumenterà, in Cina, anche la intensità competitiva, che è la pressione della competizione tra industrie dello stesso settore.
Cambieranno anche i consumi che, in Cina come altrove, saranno più attenti riguardo alla salute e alla qualità e meno legati all’immagine e al glamour, l’industria che vincerà, nel prossimo futuro, sarà molto più no frills, senza fronzoli, più essenziale e più attenta ai suoi effetti sulla salute. E probabilmente, saturerà bisogni che oggi chiameremmo ancora “post-moderni”.
Aumenterà comunque, anche in Cina, lo spazio del settore privato e anche quello del Terzo Settore.
La pandemia, dicevamo prima, in Cina come altrove, ha fortemente accelerato la digitalizzazione nel B2C (business to consumer) ma anche nelle transazioni fisiche (sempre meno frequenti, data la pandemia) e nel B2B (business to business).
Il 55% dei consumatori, in Cina, continuerà ad acquistare cibo e beni di uso giornaliero on line anche dopo la cessazione della pandemia, ma la Cina aveva iniziato a diminuire la sua esposizione alle economie mondiali già da ben prima della esplosione della pandemia virale. Riallocazione di elementi della supply chain in altre aree economiche e politiche, quindi, e ancora rientro nel territorio cinese o nei Paesi più vicini di molti dei settori che, nella prima fase della globalizzazione cinese, erano stati proiettati all’esterno, e qui siamo alla cassazione di un progetto quindi che, fino alla pandemia da Covid-19, era tipico della politica cinese.
L’uso della globalizzazione, quindi, come Rivoluzione passiva, per dirla con Antonio Gramsci.
Ovvero, l’imitazione da parte di Pechino dei modelli occidentali della globalizzazione-americanizzazione per poi rielaborarli egemonicamente. Quindi, per Pechino e anche per la Ue, secondo gli ultimi progetti elaborati dai loro think tanks, si tratta di un vero e proprio decoupling: ovvero l’inizio di una grande fase di diversificazione industriale e di nuova specializzazione globale tra le aree produttive e tra le nazioni. Con una “sequenza industriale”, comunque, ben più stretta rispetto alle lunghissime “catene del valore” che hanno caratterizzato, fino a oggi, la globalizzazione a guida americana e la struttura del commercio mondiale.
Per quel che riguarda la diversificazione industriale, è bene notare che, in Cina, il decile più alto delle società e delle imprese cattura oggi oltre il 90% dei profitti, mentre altrove la media è del 70%.
Verticalizzazione massima, cui corrisponde un rapporto particolare, ma meno ovvio di quanto si immagini, tra economia e direzione politica.
Questo sistema certamente cambierà, e molte nuove imprese entreranno nella top ten dei profitti, con una trasformazione interna dei sistemi produttivi, molti dei quali maturi, e poi l’entrata, nel vertice delle imprese, di attività nuove: sistemi digitali, tecnologia da sostituzione di lavoro, grande distribuzione, entertainment.
Così come la grande crisi Usa negli anni ’30, che è stata superata solo per mezzo delle spese belliche della II Guerra Mondiale, ha creato il grande cinema di massa e già globalizzato, la crisi pandemica, oggi, creerà un nuovo e grande mercato per la Tv specializzata, i film in streaming, Internet.
E, ancora, il 70% dei consumatori, come ci rivela una recentissima analisi di McKinsey in Cina, cercherà sempre di più cibi sani, prodotti eco-friendly, prodotti per la persona di alta qualità. Altro cambio storico di paradigma del consumo.
Inoltre, quando ci fu la Sars, epidemia virale anch’essa, furono lo Stato cinese e le imprese di proprietà del settore pubblico a ricominciare rapidamente e con grandi investimenti l’espansione economica, mentre oggi il settore privato cinese vale il 90% dei nuovi posti di lavoro e i due terzi della crescita economica.
Cambia quindi oggi, a Pechino, il rapporto tra politica e economia, si modifica e si accelera, con gli effetti della pandemia da coronavirus, la trasformazione privatistica dell’economia cinese e il nuovo rapporto tra Centro politico e decisione economica.
Sul piano politico, e soprattutto strategico, il rapido contenimento della pandemia da coronavirus in Cina, pure dopo le prime difficoltà, dubbi e lentezze, ha innescato, anche in Occidente, un nuovo dibattito tra categorie politiche, semplicistiche magari, ma chiare: autoritarismo, populismo e liberalismo, sia pure nei criteri classici di queste tradizioni politiche in occidente. C’è però un fatto nuovo, nella politica globale: una nuova correlazione tra modelli geopolitici differenti e la stessa competizione geopolitica.
Il modello cinese emerge come riferimento di punta della vasta, ormai, area che potremmo chiamare “anti-liberale” o “anti-liberista”, con Pechino che promuove la sua specifica “vittoria contro il virus” per difendere e, per la prima volta, propagandare il suo specifico sistema politico.
Non più l’imitazione, magari con “criteri cinesi”, della globalizzazione nordamericana e europea, ma la rivendicazione di un criterio centralista, autoritario, nazionalista e confuciano per la vittoria contro il Covid-19.
Peraltro, la pandemia da coronavirus dimostra che, oggi, i confini, qualunque sia la nostra ideologia di riferimento, sono molto più vaghi e porosi di quanto non immaginassimo. Quindi, abbiamo a che fare con una nuova guerra fredda dai limiti, però, inimmaginabili, mentre la lotta fra sistemi politici e economici diventa una, per dirla con un vecchio capolavoro della fantascienza, “guerra dei mondi”.
Peraltro, in Usa abbiamo un evidente deficit di leadership politica, la si pensi come si vuole, con un Presidente Usa, l’ultimo vero sovrano contemporaneo, che è perfino inviso al suo deep state e a buona parte delle sue stesse classi dirigenti. L’attacco di guerra ideologica e culturale da parte della Cina verso gli Usa è, da questo punto di vista, tecnicamente esatto e razionale, soprattutto se si guarda allo scontro sui dazi.
L’Ue è in grave crisi, forse definitiva, e certamente nessuno, fuori dall’Europa, pensa al modello Ue come a un esempio. Peraltro, tra la Corea del Sud, il Giappone, la stessa Cina, Singapore e Taiwan, l’Asia ha dimostrato di aver fatto meglio, nelle more della pandemia, di molti Paesi occidentali.
Pechino vuole quindi mantenere prima di tutto lo shift to Asia, ma con una diversa formula produttiva, quella che la pandemia da coronavirus farà emergere: più privatizzazioni, prodotti diversi da quelli della vecchia globalizzazione e spesso migliori, una diversa rete distributiva, una minore verticalizzazione produttiva.
Quindi, quali saranno gli scenari prossimi venturi, nella fase di controllo-stabilizzazione del Covid-19?
Ipotesi a) Il ritorno al passato, ovvero allo scontro classico tra Usa e Cina per limitarsi a vicenda, mentre i processi che abbiamo già descritto procedono, con i loro tempi lunghi. Aumenterà, in Occidente come in Oriente, la quota di spesa pubblica per la salute, si modificherà la struttura della protezione sanitaria nei Paesi “liberisti”, che pure, come gli Usa, spendono addirittura di più dell’Italia per la sanità, poi si modificherà, anche in Cina, il sistema ospedaliero e, soprattutto, quello dell’early warning sanitario, che è stato il vero punto debole di tutte le reti, occidentali e orientali, della sanità.
b) Si può anche immaginare il mantenimento, a nuove condizioni, della crescita stabile cinese. Il successo derivante dal rapido contenimento della crisi infettiva potrebbe catalizzare, verso Pechino, un nuovo vasto gruppo di simpatizzanti. Poi, c’è l’anno elettorale in Usa, che farebbe, probabilmente, passare il testimone presidenziale da un Trump che, chiaramente, ha organizzato attorno alle “colpe della Cina” la sua campagna elettorale, a un più moderato Joe Biden.
c) Se questo accadrà, Washington ritornerà ad avere una rete di istituzioni internazionali dalle quali esercitare la sua egemonia, pur mantenendo un contrasto evidente tra Usa e Cina sul piano dell’hard power e delle relazioni commerciali.
d) L’Ue potrebbe perfino essere della partita, se riuscirà a convincere gli Stati Uniti a una distribuzione dello sforzo strategico più ampia di quella attuale, ma non crediamo che, a parte qualche isolato leader europeo, l’Unione possa arrivare a tanto. Il pensiero strategico UE è ridotto al minimo. Hanno vinto i (cattivi) ragionieri.
Certo: la battaglia contro il coronavirus diminuirà, in primo luogo, il potenziale militare degli Usa nel Pacifico; e l’Ue avrà, nelle more della terapia economica contro la crisi da covid-19, il suo test di sopravvivenza economica e strategica. Il Maghreb è ormai in crisi definitiva, la pandemia ha destabilizzato, temiamo definitivamente, tutta l’area. Cosa riuscirà a fare il gattino cieco della Ue in una situazione di ebollizione, migratoria, economica, militare, petrolifera del Maghreb non è oggi dato prevederlo. Ma sarà sempre troppo poco, questo è certo.
Anche i Paesi maggiori dell’Opec sono in fase molto critica, mentre la Russia è in fase di controllo attento della sua pandemia, che è probabilmente maggiore di quanto non si sappia. Chiusura dei canali petroliferi per la Ue, nelle more dell’abbattimento del prezzo al barile? L’Europa non sopravvivrebbe.
Quindi, il coronavirus è un rapidissimo game changer per tutto il globo. E chi avrà la proiezione di potenza informativa e di psywar maggiore degli altri creerà una “narrativa” che si dividerà tra l’attribuzione della colpa e dello shame al nemico del momento, e dei relativi successi nella lotta al virus da parte del Paese che produce, appunto, la “narrativa”. Attualmente, non ci risulta che la Ue e, per certi versi, gli Usa, abbiano costruito una narrazione adatta a questa nuova psywar virale.
Quello che si vede, dal lato americano, è l’adattamento di vecchi modelli prima messi in atto con il Giappone, nei primi anni ’90 del XX secolo, o nelle propaganda contro i Paesi “cattivi” in Medio Oriente o nell’America Latina. Il pattern è stato sempre lo stesso: a) sei antidemocratico, b) hai compiuto una serie di delitti, nel senso privatistico del termine, c) è un “bugiardo”. La psywar Usa è soggettivista.
Il presidente Trump parla, oggi, di “virus cinese” e ha organizzato azioni contro la Cina in sede legale internazionale, ma la cosa non sembra attualmente del tutto efficace. Vince, nella psywar della “narrazione”, chi racconta la storia più affascinante e credibile, che non vuol dire affatto che sia vera, invece non vince mai chi fa causa, chi è troppo aggressivo o chi accusa formalmente un ipotetico o reale nemico.
Peraltro, la questione del laboratorio di Wuhan è più complessa di quanto non si creda. Barack Obama aveva posto una moratoria di quattro anni sui risultati degli esperimenti a Wuhan, mentre sia gli Usa che la Francia hanno finanziato, per anni, il laboratorio dello Hebei, specializzato sulle ricerche sui virus animali, magari proprio quelle ricerche che nei loro laboratori non potevano, o non volevano, far compiere.
I francesi iniziano infatti nel 2004 a costruire, sempre a Wuhan, un laboratorio di massima sicurezza per la ricerca sui virus animali. Nel 2017 il laboratorio viene inaugurato, ma i cinesi ne tengono fuori i 50 ricercatori francesi, che dovevano comunque accedervi.
Qui subentrano subito gli americani. Ed è proprio Anthony Fauci, il capo del Niaid, National Institutes of Allergy and Infectious Diseases, che finanzia, sostituendo Parigi, e con 3,7 milioni di usd, un progetto, questa volta tutto cinese, sui virus.
Negli anni precedenti, erano arrivati a Wuhan finanziamenti americani per 7,4 milioni.
Questi, nei limiti del possibile, i fatti. Ma è certo che la questione della sicurezza sia stata primaria, dopo lo scoppio della pandemia, anche per i cinesi.
Il primo scenario geopolitico e strategico elaborato da Pechino, nelle more del continuo scontro tra Cina e Usa, è quello di una guerra limitata tra le due superpotenze nel Mar Cinese Meridionale.
E c’è anche l’interno della Cina che non emette più, da tempo, segnali tranquillizzanti. Ci sono segnali di destabilizzazione sociale, che non maturano in rivolte ma sono ben analizzati dal Partito Comunista Cinese.
Si opera, oggi, in Cina, per restaurare la “pace sociale”, anche con strutture governative ad hoc.
Niente vieta, nella mente dei decisori di Pechino che, in questo contesto, possano operare paesi avversari, magari con supporti operativi lontani. Il Presidente Xi Jinping ha parlato, fino dallo scoppio dell’epidemia, di una “guerra del popolo” contro il virus.
Per ora, il paradigma della propaganda cinese è quello dell’efficienza: non sappiamo dove è nato il virus, ma siamo stati certamente rapidi nel contenere la pandemia. All’inizio, Pechino ha anche lasciato aperti alcuni controlli della psywar, perché si riteneva che la gente, subito dopo l’inizio della pandemia, avesse bisogno di qualche valvola di sfogo.
Ma l’immagine di efficienza del regime cinese è stata gestita certamente con successo all’estero, ma ha avuto delle falle all’interno. Falle che vengono da lontano: il regime cinese, all’inizio della globalizzazione, ha offerto agli imprenditori occidentali un livello salariale basso, una scarsa sindacalizzazione, bassi livelli di tutela ambientale, un rapporto amichevole con gli uomini del regime.
Ora, questo meccanismo si è inevitabilmente rotto. Il ritardo nel controllo della pandemia, che però è stato alla fine efficace, ma poi la crisi economica, inevitabile, ora morde, malgrado la rapidità di Pechino nel rispondervi. Il “credito sociale”, sintesi di tutta la vitta cittadina e sociale di ogni individuo, è oggi in crisi.
Nato nel 2014, è un sistema di sorveglianza, tradizionale o evoluta, che induce i cittadini ad adottare un comportamento migliore e più “sociale”. Il sistema monitora e punisce l’appartenenza dei cittadini, per esempio, a associazioni non approvate dal governo, oppure il ritardato pagamento dei debiti, o anche l’eccessiva dipendenza dai videogiochi, la scarsa pulizia, e perfino la mancanza di gentilezza nei confronti degli altri cittadini.
Ovviamente, lo scoring basso impedisce a chi lo raggiunga tutta una serie di vantaggi, permessi, occasioni. Il sistema sarebbe stato definitivamente perfezionato, guarda caso, proprio nel 2020 e dovrebbe riguardare anche le imprese. La psywar Usa contro la Cina, per quel che riguarda il coronavirus, riguarda però questi argomenti di base: a) la Cina ha sempre qualcosa da nascondere, ed è certo gravissima, ma non lo sappiamo ancora del tutto, b) noi (gli Usa) lanciamo molte e svariate accuse, ma la Cina risponde solo a quelle alle quali le interessa rispondere, ma anche c) tutti ce l’hanno con la Cina, qualcosa avrà pur fatto.
Pechino risponde con una serie di contro-argomenti di psywar. A) Si crea subito la costruzione di una intera “storia” che, essendo completa, tende a ridicolizzare i tentativi Usa. La storia intera batte sempre le allusioni rapsodiche. Poi, b) la dimostrazione che anche altri ce l’hanno con Pechino, e quindi le nostre (Usa) accuse contro la Cina sono vere. Ma è anche la dimostrazione che c’è un complotto contro Pechino. Una banale e, talvolta rozza guerra delle informazioni Osint.
Poi, messaggi multipli e messaggi subliminali, da parte di tutti e due i Paesi.