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La vittima eccellente del Covid-19? L’euro

L’euro potrebbe essere la vittima eccellente del Covid-19, se tramite il Recovery Fund, il Mes, ed altri strumenti aggiuntivi a quelli della Banca centrale europea non vengono effettuati trasferimenti ingenti e spediti agli Stati dell’Unione europea (Ue) più colpiti dalla pandemia ed in maggiori difficoltà economiche.

Da allievo di Robert Mundell, mi sorprende che, a quel che si legge sui media e dagli spifferi che giungono continuamente dal portavoce di Palazzo Chigi, questo punto, molto cogente, non venga fatto da Belgio, Grecia, Francia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Portogallo, Slovenia e Spagna. A fine marzo, i nove leader di questi Stati hanno firmato un appello perché il Consiglio dei Capi di Stato e di governo della Ue vari un programma straordinario (nel senso etimologico di fuori dall’ordinario) per affrontare la crisi e stimolare la ripresa. La fine dell’euro danneggerebbe tutti ma toccherebbe, in particolare modo, la Repubblica Federale Tedesca. Per contrastare la pandemia e rilanciare l’economia, Berlino ha varato un piano di mille miliardi di euro ed ottenuto dalla Commissione europea ampie deroghe alle regole sugli aiuti di Stato (al fine di entrare, temporaneamente, nel capitale di aziende in crisi). Se l’unione monetaria si sfalda, la Repubblica Federale perderebbe i suoi principali mercati e la moneta sua (e degli Stati che vi assocerebbero in un nuovo accordo monetario) avrebbero una forte rivalutazione.

Lo dice la teoria dell’area valutaria ottimale che tratta ampiamente degli shock asimmetrici. Lo shock da Covid-19 è, al tempo stesso, uno shock simmetrico (in quanto provocato da una determinata esterna che colpisce tutta l’eurozona) ed asimmetrico dato che colpisce alcuni Stati (già fragili) molto più di altri. La teoria che per decenni abbiamo insegnato ai nostri studenti ci dice che: la domanda di determinati beni prodotti in un paese (paese A) potrebbe aumentare, mentre potrebbe diminuire la domanda di beni prodotti in un altro paese (paese B).

In assenza di una unione monetaria, la aumentata domanda dei beni del “paese A” dovrebbe far cambiare il tasso di cambio, portando al deprezzamento della moneta del “paese B” e all’apprezzamento della moneta del “paese A”, evitando l’aumento della disoccupazione nel “paese B” (o il deterioramento della bilancia commerciale), che sarebbe altrimenti danneggiato dalla diminuita domanda dei beni prodotti sul suo territorio. Chiaramente, questo aggiustamento non può avere luogo in presenza di cambi fissi o di un regime di unione monetaria. L’aggiustamento potrebbe essere, quindi, ottenuto tramite una variazione dei salari e dei prezzi, qualora questi fossero flessibili. In assenza di questa flessibilità, l’unica soluzione per evitare le conseguenze dello shock sarebbe lo spostamento dei fattori produttivi e data la difficoltà di spostare il fattore lavoro da un’area dell’eurozona all’altra (anche per ostacoli linguistici, abitativi, ecc.) si dovrebbe trasferire capitale per spese di sviluppo ben allestite e ben valutate.

Per quel che riguarda le variazioni di prezzi e salari, poi, ipotizzarle come possibili non è sufficiente per considerarle un rimedio. Una riduzione dei salari reali non solo scatenerebbe la rabbia sociale e darebbe la stura a nuove polemiche anti-Ue, ma comporterebbe una seria deflazione ed un’ulteriore caduta dell’economia proprio quando l’obiettivo è quello di rivitalizzarla.

Per il proseguimento dell’unione monetaria sono essenziali due “medicine”: a) renderla nell’immediato e per un periodo limitato quella “transfer union” a cui tanto si oppongono Austria, Danimarca, Finlandia, Olanda, e Svezia e nei cui confronti è gelido l’elettorato tedesco e b) un metodo per risolvere il nodo del debito sovrano incrementale dovuto alla pandemia. Per b) ci sono proposte, ma per a) è unicamente problema di volontà politica.


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