Occhio al modello svedese. La scelta del governo di Stoccolma di rispondere alla pandemia di coronavirus con una strategia del tutto diversa da gran parte dei Paesi colpiti, ossia di evitare il lockdown scegliendo la strada di una presunta, futura, immunità di gregge, “va affrontata con cautela”. Lo credono Ian Bremmer, Cliff Kupchan e Scott Rosenstein che hanno firmato oggi un’opinione sul New York Times intitolato proprio “Il coronavirus e il mito della Svezia” in cui sottolineano un punto: “È pericoloso presumere che, anche se la strategia funziona in Svezia, funzionerà anche altrove”.
Si parte da un presupposto. “In Svezia gli affari non procedono come al solito – si legge -. La maggior parte dei viaggi e dei raduni di massa non sono permessi, e alcune scuole sono state chiuse. Ma le restrizioni da parte del governo sono molto meno severe di molti altri Paesi. I ristoranti e i bar sono ancora in funzione, alcuni dei quali con una distanza minima”. Misure restrittive, insomma, sebbene basate più sulla responsabilità personale dei cittadini che su prescrizioni legislative, che però hanno portato a risultati contrastanti.
Se è vero, infatti, che il numero dei decessi in Svezia sono inferiori rispetto ad alcuni vicini del sud, è altrettanto vero che conta il numero più alto di morti e casi pro capite in Scandinavia. Da aggiungere, scrivono i tre analisti, un aspetto fondamentale: “L’esempio della Svezia dimostra che una strategia di immunità mirata non fa molto per proteggere le popolazioni a rischio. I decessi tra gli anziani in Svezia sono stati dolorosamente elevati”. “Nella capitale, Stoccolma, il principale responsabile delle malattie infettive della nazione ha recentemente stimato che circa il 25% della popolazione ha sviluppato anticorpi. È troppo presto per dire se l’approccio ha funzionato. Stoccolma non è tutta la Svezia. E il 25 per cento della sua popolazione con anticorpi non è motivo per festeggiare l’immunità”. Non è chiaro, poi, se l’immunità sia temporanea, altro aspetto che influenzerebbe notevolmente una strategia basata sull’immunità di gregge.
Tutte queste criticità, scrivono i tre analisti, dimostrano che i rischi di copiare una strategia simile sarebbero enormi per un Paese come gli Stati Uniti, in cui la popolazione è, in media, in peggiori condizioni di salute. “Una strategia di immunizzazione del gregge in America significherebbe che molte di queste persone rimarrebbero in qualche forma di isolamento per molte altre settimane, probabilmente mesi”. E aggiungono: “In un paese più densamente popolato come gli Stati Uniti, e con una maggiore percentuale di persone vulnerabili, il tributo umano di una strategia di immunità per il bestiame potrebbe essere devastante”.
Ma non dimenticano, Bremmer, Kupchan e Rosenstein, l’economia. “La scelta non è tra la chiusura a tempo indeterminato e la roulette russa. È necessario che si verifichi una transizione che bilanci i rischi in gioco. Da questo punto di vista, la Svezia è il futuro”. “Un approccio più mirato all’allontanamento sociale può essere adottato quando i tempi lo richiedono, quando i vecchi metodi di salute pubblica possono favorire un graduale allentamento delle restrizioni in un modo che può essere modificato man mano che si impara di più e si sviluppano nuovi strumenti – trattamenti, comprensione dell’immunità, miglioramenti dei test e dati epidemiologici”, si legge in conclusione.
La chiave? Non abbassare la guardia troppo presto e troppo in fretta e mettere in moto “un’infrastruttura di test e di ricerca dei contatti che consenta di identificare precocemente le epidemie e di isolare e mettere in quarantena, se necessario. Queste cose – non l’esperienza della Svezia – dovrebbero guidare i nostri prossimi passi”, negli Stati Uniti, ma forse non solo.