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Covid-19 non ferma il Pentagono. Ecco i messaggi Usa a Russia e Cina

“The Bone is back to Guam”. The Bone è il nomignolo con cui la Air Force americana chiama il B-1 Lancer, bombardiere strategico da anni tra i pezzi di punta delle forze armate Usa. Quando si scrive “bombardiere strategico” si intende un mezzo in grado di trasportare gli armamenti nucleari, ma anche missili guidati aria-superficie, come gli AGM-158 Jassm che si vedono in un alcune immagini della 7th Bomb Wing (di stanza a Dyess, in Texas) riprese proprio dall’isola del Pacifico, in cui gli Stati Uniti hanno piazzato una base area dal valore strategico, che fa da avamposto di deterrenza nei confronti della Cina.

Il Pentagono s’è premurato di farle uscire, di fotografare uno dei bombardieri che veniva caricato con almeno tre di quei missili stealth in grado di essere guidati fino a centinaia di miglia dal bombardiere. Interesse accentuato dal fatto che lo scorso mese si era parlato della decisione di sospendere la presenza fissa di questo genere di velivoli (che fossero B-1 o B-2 o B-52, hanno la stessa mission) dopo quindici anni. Sembrava sorprendente, visto l’interesse che il quadrante ha nella strategia americana, ma dalla Casa Bianca c’erano state critiche sul costo di quella presenza (evidentemente sottovalutandone il valore strategico, aveva scherzato per esempio sulla distanza eccessiva della base dagli Usa durante la conferenza stampa dopo aver incontrato il satrapo nordcoreano, Kim Jong Un, in Vietnam il 28 febbraio 2019).

E infatti adesso il messaggio torna chiaro, trasmesso direttamente da uno dei comandati della Bombing Task Force nel video stesso: il Covid ha posto delle difficoltà davanti a noi, ma “quello che non faremo è disinteressarci” a certe attività. Il colonnello del 9th EBS nel video spiega che quei bombardieri sono lì proprio per far segnare la “presenza” americana, rispondendo a un necessità esposta nella National Defence Strategy, la “dynamic force employment”, buzzword con cui il Pentagono spiega concetti contenuti nel documento – pubblicato nel 2018, dopo un decennio.

Sostanzialmente, la presenza degli assetti militari statunitensi nel quadrante Indo-Pacifico ha un assoluto, esclusivo valore politico. E un destinatario: la Cina. Ossia serve a spiegare a Pechino che non ha egemonia in quell’area. E la sottolineatura sul momento – la crisi prodotta dall’epidemia – serve a mettere in chiaro che nonostante tutto certe dinamiche strategiche non si fermano.

Due giorni fa, per esempio, due Lancer sono decollati dalla Andersen Air Base di Guam e hanno proceduto su due rotte differenti. Uno a nord ha tagliato dal basso Taiwan (centro di frizione Washington-Pechino) per poi attraversare il tratto di mare che separa la Repubblica di Cina dalle Filippine e arrivare sopra alle isole Paracels. L’altro è passato da sud, ha attraversato il mare di Celebes, e ha sorvolato le Spratly. Entrambi si sono ricongiunti dunque nel Mar Cinese Meridionale, dopo aver sorvolo due dei gruppi di isole (le Paraceles e le Spratly) che sono il centro delle tensioni dell’area, dove la Cina ha spinto la militarizzazione di quegli scogli apparentemente poco significanti.

Per Pechino il Mar Cinese è un dossier di valore diretto e indiretto. Diretto perché è crocevia di tutte le rotte che dal Pacifico vanno verso l’Indiano e proseguono per Suez, e perché nei fondali ci sono reservoir energetici di cui il gigante cinese è assiduamente assetato. Indiretto perché la contesa territoriale con altri paesi dell’area – tutti sponsorizzati dagli Usa – è un test da potenza: la Cina non può pretendere di essere un gigante geopolitico se non riesce a risolvere le problematiche nel proprio cortile.

A fine aprile, altri B-1 (stavolta del 28th Bomb Wing) avevano condotto una operazione monstre di 32 ore, decollando dalla base di Ellsworth, in South Dakota, e compiuto un sorvolo andata-ritorno sul Mar Cinese. In quegli stessi giorni le Spratly e le Paracels erano state visitate dallo “USS Bunker Hill” e “USS Barry”, rispettivamente un incrociatore e un destrayer lanciamissili della US Navy. Il 15 aprile, un altro B-1 era decollato da Eallsworth per arrivare in Giappone, passando per il Mar Cinese fino alla base di Misawa. Una volta lì ha compiuto un’esercitazione congiunta con la Kōkū Jieitai.

Questo genere di attività sono la testimonianza che all’interno dell’amministrazione americana l’impegno strategico è forte nonostante la pandemia. Impegno che segue le direttrici segnate dalla National Security Strategy, documento del 2017 – rinnovato dopo anni – che indica nella Cina una “rival power” insieme alla Russia. Non è un caso infatti se contemporaneamente anche in Europa si svolgono manovre militari dello stesso genere. Dalle esercitazioni sull’asse Trimarium, a Defender Europe 20 (esercitazione che doveva essere mastodontica poi ridotta – ma non annullata, attenzione – per via dell’epidemia).

Contemporaneamente, un altro B-1 di Ellsworth è partito con una missione simile a quella nel Mar Cinese da svolgere però in un altro ambito talassocratico di primo piano, il Baltico, dove le mire russe sono da sempre insistenti. Ha seguito la rotta di un’altra coppia di colleghi che il 5 maggio hanno compiuto sopra quelle acque esercitazioni congiunte con i caccia danesi. E sempre sotto il “dynamic deployment (o employment)” il comando strategico del Pentagono ha inviato B-52 e B-2 tra Europa e Pacifico in questi giorni. StratCom dice espressamente nel suo statement che Covid-19, sottolineando che la malattia causata dal nuovo coronavirus, non ha ostacolato la capacità del Pentagono di svolgere la missione. Ossia, di dipanare la strategia.

(U.S. Air Force photo by Senior Airman River Bruce)


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