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Perché l’East Med è un dossier centrale per l’Europa (e l’Italia). Il report Ecfr

L‘evoluzione della crisi libica ha mostrato in queste settimane come il Mediterraneo – acque che stanno vedendo navi da guerra di diversi Paesi muoversi davanti al Nordafrica – diventi chiaramente lo sbocco di proiezione di molte dinamiche geopolitiche. Su tutte, la sovrapposizione tra il conflitto civile internazionale in Libia e la delicata situazione della porzione orientale del bacino, l’East Med: tema ormai chiaro da tempo.

Tanto che nella partita libica l’attore prevalente, la Turchia, ha deciso di scendere in campo anche con l’interesse di sovrapporre la propria proiezione esterna a cavallo del quadro geopolitico dell’EastMed, creato negli anni scorsi attorno alle evoluzioni di un gasdotto omonimo.

Sebbene attualmente con ogni probabilità la pipeline non verrà mai realizzata — perché troppo costosa considerando il trend in calo del mercato energetico — ha fatto da magnete per la costruzione di un blocco di Paesi, tutti per varie ragioni ostili alla Turchia, cristallizzato in quello che è stato chiamato East Med Gas Forum, che comprende anche la Giordania e a cui ha partecipato in modo più defilato anche l’Italia.

Contemporaneamente Grecia ed Egitto, sono gli Stati dell’East Med che si sono trovati sul lato del signore della guerra dell’Est libico, Khalifa Haftar, e nel tentativo del miliziano di rovesciare il governo onusiano di Tripoli vedono un modo per regolare i conti con la Turchia. Ankara dal novembre scorso ha stretto un doppio memorandum di cooperazione con Tripoli, uno che riguarda la sfera militare, l’altro l’unione delle Zone economiche esclusive.

Un’intesa che va a detrimento geografico (e dunque geopolitico) del sistema East Med, manda un segnale alle dispute marittime con la Grecia (altro argomento per cui la Turchia è coinvolta nella regione), e che si è recentemente trasformata nella formalizzazione della domanda per ricerche di esplorazione nell’off-shore libico.

Un’area dove secondo le previsioni potrebbero esserci reservoir anche più grandi di quelli scoperti in questi ultimi anni nel Mediterraneo orientale, tra Egitto e Cipro, e Israele — attore che gioca la propria partita secondo un’agenda diretta e tendenzialmente indipendente (basta guardare i segnali di riavvicinamento alla Turchia di queste settimane).

La dimensione della situazione, e la sua centralità geografica (e quindi, di nuovo, geopolitica, con accezione anche culturale, sociale, evoluzionistico: il Mediterraneo e l’Europa sono ancora il centro dell’interesse globale), hanno attirato coinvolgimenti extra-regionali.

Su tutti la Russia, che sfrutta il dossier per collegare la crisi siriana a quella libica — sfere d’intervento profondo da trasformare in interessi politici ed economici. Ma anche la Francia, allineata formalmente col quadro anti-turco, e gli Stati Uniti, nei mesi pre-pandemia più posizionati all’interno di East Med ma attualmente in fase di ricongiungimento con Ankara — dopo anni di rapporti rigidi — e più sganciati dalle dinamiche della regione se non fosse per un rinfrescato interessamento libico giocato sulla direttrice anti-russa.

Infine gli Emirati Arabi, che alla stregua dei rivali turchi dimostrano sulla fascia nordafricana-mediterranea un doppio interesse: da un lato lo scontro proxy intra-sunnismo con Ankara, che si traduce nell’impegno alla ricostruzione dello status quo in Libia (e dopo anni tumultuosi all’accettazione di quello in essere in Siria, dove Abu Dhabi a questo punto cerca spazi); dall’altro c’è l’obiettivo di costruire sul fronte meridionale del bacino mediterraneo un’infrastruttura geopolitica con morfologia portuale da poter muovere indipendente, ma integrabile nella via della seta marittima cinese.

A mettere un pizzico di ulteriore tensione nel quadrante, ci sono le crepe interne alla Nato. La Turchia è schierata su un lato, la Grecia e la Francia si muovono sull’altro. A febbraio 2020, la portaerei francese “Charles de Gaulle” è stata inviata nella acque che coprono un campo gasifero contestato fuori Cipro: un’evidente forma di deterrenza nei confronti di Ankara, che ha puntato gli occhi sulla zona.

Ancora: a metà maggio, il blocco di Paesi composto da Egitto, Grecia, Cipro e Francia, insieme agli Emirati, hanno diffuso un comunicato severo denunciando le interferenze turche nel conflitto libico; e anche in questo caso gli occhi erano puntati anche (o soprattutto) altrove, ossia sull’East Med.

Il tutto descrive uno scenario multi-strato e molto problematico per il quadrante, e dunque per l’Unione europea, che ha alcuni membri direttamente coinvolti e ha in corso un rapporto da finalizzare con la Turchia – rapporto che, sebbene su piani distinti, si somma al quadro Nato. Per la Turchia la costruzione del sistema politico, economico e commerciale che sta al fondo dell’intesa tra i Paesi dell’East Med, è un elemento che intacca la propria sfera d’influenza regionale e crea problemi nel confronto mediorientale con gli Emirati Arabi (e l’Arabia Saudita). Viceversa, per gli altri paesi l’intento è esattamente quello.

È per questo che la policy Ue del “soft containement” non sembra sufficiente a gestire certe dinamiche. Bruxelles ha d’altronde intavolato con Ankara relazioni di carattere diverso. L’Europa ha affidato alla Turchia il controllo della rotta balcanica dell’immigrazione, e – come visto nel caso dell’assedio di Idlib a febbraio – Ankara può usare i migranti come arma di ricatto politico contro l’Unione. Ma le due realtà condividono pure politiche di sicurezza, anche in proiezione mediorientale, oltre che il fronte Nato.

È sotto questa ottica di interessi reciproci e articolati che si muovono nel quadrane East Med, che l’Ecfr ha proposto in un’analisi una serie di policy che l’Ue potrebbe adottare per alleggerire le tensioni sul quadrante. Tra queste per esempio l’inserimento della Turchia nel forum di dialogo regionale (che ruota attorno al gas, ma ha valore molto più ampio come detto); portare turchi e ciprioti in una discussione dagli obiettivi “tecnici” sul gas dell’isola; spingere gli emiratini a riavviare il processo negoziale in Libia; concordare gli elementi di un “nuovo accordo con Ankara basato su un impegno pragmatico piuttosto che su una continua escalation”.

“L’escalation del conflitto in Libia e la rivalità tra la Turchia e Golfo si intersecano direttamente con le dispute territoriali e con la contesa sul gas tra Europa e Turchia”, spiega Julien Barnes-Dacey, direttore del programma MENA di ECFR: “Quello che succede nel Mediterraneo orientale non è una questione periferica per l’Europa. Se da un lato gli europei dovrebbero rimanere impegnati nel rispettare i principi fondamentali, dall’altro devono riconoscere il pericolo rappresentato dall’attuale percorso con Ankara e dalla convergenza delle linee di conflitto mediorientali con le aree di conflitto europee”.

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