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Il sogno europeo o l’incubo nazionalista? Un secolo secondo Civiltà Cattolica

Se la memoria finisce con il sembrare inutile allora è importante usarla. Aiuta a vedere davanti, come il guardarsi intorno aiuta a realizzare non tanto cosa ci sia intorno a noi ma dove siamo. E così in un giorno come questo, 9 maggio, settantesimo anniversario del discorso con cui il ministro degli Esteri francese annunciò la proposta di unire la produzione europea di Acciaio e Carbone, la memoria di quale sia stato il confronto tra timori e speranze, consapevolezze e rigidità serve a tutti noi per renderci conto non tanto di come eravamo ma di cosa sia in gioco per noi e dentro di noi. Lo sappiamo tutti che oggi la stessa scelta europea è messa in discussione da molti, ritenendosi sempre di più che sia ora di cambiare strada, di abbandonare un cammino che non porterebbe da nessuna parte, o meglio, che ci porterebbe alla perdizione, a rinunciare alle possibilità offerte dalla sovranità per gli svantaggi che derivano dai vincoli. Sono dunque momenti di rara importanza per la nostra comunità e La Civiltà Cattolica, a pochi giorni dalla pubblicazione di un robusto monografico sui tanti volti della crisi innescata dalla pandemia, ci mette a disposizione un altro strumento attualissimo: trecento pagine di studio questa volta sull’Europa. E infatti si intitola semplicemente “Europa” questo nuovo volume della collana monografica “Accenti”.

Apre i suoi archivi la rivista più antica d’Italia, la rivista del papa che pubblica ininterrottamente da 170 anni e ci mostra il cammino cattolico dagli anni Trenta a oggi sulla questione europea.  Presentando il lavoro il direttore, padre Antonio Spadaro, la mette così: “Sin dal marzo del 1948, i padri Brucculeri e Messineo avevano incoraggiato i credenti a rifarsi al Magistero pontificio, assecondando ‘ogni iniziativa, ogni sforzo diretto all’u­nione’ dell’Europa, qualunque essa fosse. Il messaggio era chiaro: i partiti europei di ispirazione cristiana avrebbero dovuto impegnarsi a tradurre politicamente l’insegnamento della Chiesa per giungere a un ordine mondiale basato sulla giustizia e sulla solidarietà. Sia chiaro: l’impostazione del loro ragionamento resta legata a un certo atteggiamento ‘intransigentista’ di fine Ottocento e di inizio Novecento. Si capirà come i nostri predecessori guardassero con apprensione a un sistema internazionale basato su uno stabile accordo fra le forze legate al comunismo sovietico e quelle poten­ze, come gli Stati Uniti o la stessa Inghilterra, ritenute ugualmente lontane dalla tradizione latina. E tuttavia si capirà come il contribu­to de La Civiltà Cattolica al dibattito sul futuro dell’Europa sia stato davvero significativo. Un esempio: il p. Messineo, pur dimostrando diffidenza per la battaglia federalista di Altiero Spinelli, riconosce con lui, in una recensione, che se l’Europa avesse voluto sopravvi­vere e conservare la propria civiltà, sarebbe stata costretta a «unirsi, abbattendo lentamente le barriere nazionali» che la dividevano”.

Non sono voci che parlano soltanto di sé. Oggi come allora gli scritti de La Civiltà Cattolica vengono letti e approvati dalla Segreteria di Stato prima della pubblicazione. Dunque a chi vede nelle difficoltà tra nord e sud dell’Europa anche il riflesso di una difficoltà tra cattolici, “laici” e protestanti questa lettura offrirà molto per capire, in modo ugualmente profondo ma meno schematico. Le analisi politiche di oggi possono anche opporsi a quelle odierne, ma il progetto europeo appare una bussola per evitare ciò che da allora al mondo cattolico è sempre stato ben chiaro: la guerra. Guerra è una parola rimossa dal nostro vocabolario per l’Europa, ma basta guardare all’ Oriente nel tempo della grande sfiducia tra Cina e Stati Uniti per rendersi conto che rimuovere i vocaboli, quando all’amicizia subentra il sospetto, è il prodotto di un’illusione che può essere profonda ma anche durare assai poco.

E allora torniamo al 1942, quando la guerra c’era qui, da noi. Il padre gesuita Angelo Brucculeri su La Civiltà Cattolica constatava: “Non è più un buon calcolo per un popolo attendersi dei buoni affari dalle guerre altrui. Il bolscevismo, che nella sua sventataggine aveva riposto le speranze del suo definitivo trionfo nel contrasto armato degli Stati capitalistici; il bolscevismo, che è uno dei più grandi responsabili del cataclisma presente, perché lo ha fomentato con tutte le male arti della diplomazia, paga oggi a carissimo prezzo le sue speculazioni criminose”. Ma già allora, nel febbraio del 1942 aggiungeva: “Si vuole pel domani un’organizzazione politica dalle maggiori dimensioni spaziali. Si parla quindi e si scrive di grandi spazi, di etnarchia imperiale, particolarmente di idea continentale; la quale per noi vorrebbe indicare una riorganizzazione dell’Europa, che sotto una qualche forma sia idoneo strumento di cooperazione”.

Le radici di questa visione sono antichissime, va giù nella storia, da secoli e il cristianesimo per il padre gesuita non ha significato certo poco in questo quadro. Ma poi è successo qualcosa, le distanze in Europa sono state di nuovo dilatate: Prima dalla ubriacatura umanistica a sfondo paganeggiante e poi dall’uragano protestantico, che, coll’infatuazione della coscienza individuale o del libero esame, ebbe una parte decisiva nella esacerbazione e diffusione dell’individualismo nazionalista”.

Comunisti, liberali, protestanti: non sembrano interlocutori auspicati di un incontro ritenuto auspicabile e fecondo. Il problema, come si vede, è sempre e tutto altrove. Eppure in quello stesso articolo si legge poche pagine dopo: “Come è chiaro, l’idea continentale non data da oggi; ma può dislocarsi dalla sfera delle possibilità astratte in quella delle concrete realtà? Non mancano delle ragioni per l’affermativa. Notiamo, anzitutto, che l’aspirazione verso una più vasta forma di coesistenza politica risponde alle esigenze della nostra natura sociale, donde scaturisce la sociabilità degli Stati. Questi d’altronde hanno bisogno di scambi ed integrazioni materiali, culturali e morali. Questo bisogno è generatore di intese e di unioni fra i popoli. La sintesi continentale non è solo conforme all’universale tendenza della sociabilità, ma altresì all’odierno bisogno della vita economica. Mai come al presente si avverte da ogni parte che l’attività economica non può più svolgersi tra la foresta di mille barriere e nelle angustie paralizzanti di tariffe doganali, di blocchi e contro blocchi, di fluttuazioni e lotte monetarie, di continue preoccupazioni politiche”.

E più avanti: “Si danno adunque delle probabilità, perché si abbia ad attuare una qualche unione delle genti europee: si danno soprattutto delle condizioni psicologiche, propizie a quest’evento; «condizioni originate dalla guerra, la quale quanto più è grave e nefasta, tanto più ci fa apprezzare ed agognare i beni della concordia. Ma se sulla nascita d’una unione europea possiamo avventurare qualche timida affermazione, intorno poi alla sua natura non è possibile dir nulla. Avrà essa un contenuto prevalentemente politico o semplicemente economico?” Il ragionamento proseguiva per arrivare qui: “Si può fin d’ora assicurare che il nuovo ordine non avrebbe gran vigore, se si dovessero coltivare quelle concezioni corrosive di cui si hanno dei residui nella cultura contemporanea. Non ha tutti i torti l’ecc. Francesco Orestano se scrive: ‘Con la superrazza, con il superstato un nuovo ordine europeo non si fonda’. Queste erronee concezioni, mentre urtano l’innato senso della giustizia di un popolo, esaltano l’orgoglio di un altro, e si trasformano presto in forze di esplosione”.

L’articolo prosegue, ma noi dobbiamo andar più veloci, arrivare al ‘48. La guerra è alle spalle  e padre Brucculeri torna a scrivere dei prospettive. Che ci sia qualcosa che oggi rende la sensibilità della stessa rivista dove lui scriveva diversa da quella di allora è evidente dal ricorso all’espressione “civiltà superiore” al riguardo di Europa e America nei confronti delle altre, ma questo rafforza, non diminuisce il valore di un pensiero che già allora sapeva dire: “Mentre permangono le vetuste frontiere vigilate da oramai inutili fortezze e da impaccianti dogane, il progresso con le sue ali di aquila sorvola ogni barriera ed intesse reti di rapporti che rispondono alle esigenze del progresso”. È questa la base che gli consentiva di arrivare all’incontro con i federalisti, non certo gli unionisti che definiva “confusionisti”:

“Una struttura di questo genere che costituisse una Confederazione di Stati, potrebbe col tempo evolversi verso una forma di maggiore coesione, in cui si limiterebbe il potere sovrano degli Stati, e si trasferirebbe all’organo centrale parte della loro sovranità, come sarebbe, per esempio, la facoltà di coniar moneta, di organizzare l’esercito per la generale difesa, di occuparsi della politica estera e simili. Un’evoluzione siffatta, in uno spazio di tempo, che nessuno saprà mai determinare, trasformerebbe la Confederazione in uno Stato federale più o meno decentrato: si attuerebbe così il sospirato disegno di molti degli odierni movimenti federalisti. Non pochi, e tutt’altro che trascurabili, sono gli ostacoli che uomini e cose accumulano sull’erta via della unione europea, anche quando questa non miri a mescolanze, a livellamenti, ad uniformismi propri del moderno Stato unitario. Meta questa moralmente impossibile e del resto – diciamolo tra parentesi – non desiderabile, perché il pluralismo nazionale e la diversità degli Stati autonomi sono stati fra i grandi propulsori della civiltà europea, e potranno ancora renderle dei servizi, purché vogliano smussare le intransigenze perniciose del loro particolarismo isolante”.

Il testo procede, sempre più sorprendente, più attuale di tante discussioni odierne. Questa apertura al federalismo diventa  davvero toccante quando il padre Brucculeri chiede ai federalisti come possano accettare i comunisti e respingere i fautori di derive totalitarie: “Il certo si è che il marxista ortodosso, quale si professa ogni comunista autentico, se vuol essere coerente ai suoi principii, non può augurarsi una Unione federalista, poggiante su una concezione di Stato radicalmente diversa da quella del comunismo. Per il federalismo non utopistico lo Stato è un meccanismo necessario e permanente per la convivenza civile; pel comunismo invece è precario; è una costruzione dell’oppressione di classe, la quale un tempo era il patriziato, nel medio-evo la nobiltà feudale, oggi è la borghesia”.

Queste parole ci danno la misura di chi siano stati i protagonisti di quella stagione e ancor più della stagione che stava per arrivare.

Ci sono altre tappe che vanno ricordate, tra le tantissime che questo calibro ci fa ripercorrere. Non si può non passare per il 1957, quando stava per cominciare la stagione di Giovanni XXIII, il papa che mosse la Chiesa cattolica per evitare che la crisi di Cuba divenisse guerra atomica. E nel 1957 padre Messineo scrisse: “Per noi cattolici la firma dei due trattati del mercato comune dell’energia atomica ha un particolare significato. Essa è un’altra breccia aperta nella muraglia irta di fortilizi del nazionalismo, dal quale sono stati originati i più grandi mali e sono state provocate le guerre sanguinose di questo secolo. Aveva perfettamente ragione il Renan, quando, in un libro dedicato alla nazione e al nazionalismo, affermava che questo sentimento egoistico e angusto aveva seminato nella storia più rovine e morte che non le bombe e i gas. Se ciò era vero al momento in cui egli scriveva, oggi tale verità è immedesimata negli avvenimenti che si sono svolti negli ultimi venti anni. Una guerra spaventosa, seguita da un mortale collasso economico, politico e civile, sono stati gli effetti del veleno nazionalistico, che il razionalismo agnostico ha inoculato nei popoli europei e le perniciose teorie dello Stato, dal medesimo formulate, hanno reso più virulento. A questo riguardo non sarà fuori luogo ricordare con quanta esattezza abbia Pio XII descritto le cause del secondo conflitto mondiale, nel messaggio natalizio del dicembre 1956. Egli non nomina il nazionalismo, ma l’accusa alla sua potenza disgregatrice è implicita nella sua diagnosi”.

La consapevolezza della pericolosità del veleno nazionalistico è uno dei tratti che maggiormente interessa oggi, leggendo a tanti anni di distanza, anni che ci hanno fatto dimenticare la forza di queste constatazioni che chi scriveva allora riesce a trasmetterci ancora, anche mettendo tutto quel veleno nel sacco del “razionalismo agnostico”. Erano anni di scontri duri, terribili, e l’attualità del testo che induce a riflettere, a capire, non sembra stare nei sacchi, ma nel veleno.

Tra i moltissimi altri testi che si dovrebbero citare è fondamentale soffermarsi ancora su una citazione e una frase. La citazione è di quanto scritto nel 1981 da padre Giandomenico Mucci e riguarda l’identità europea. L’articolo, davvero importantissimo, si conclude così: “Perciò la storia europea si presenta come una storia nella quale sono nate le idee, buone e cattive, più diverse e molto spesso in reciproco contrasto. È una storia nella quale convivono molte tradizioni e questo distingue da altre culture la cultura europea: non è monolitica e dogmatica. Ma il vortice delle sue idee, delle tante filosofie, delle tante concezioni di vita e della politica può non essere ostacolo a un destino comune dell’Europa. Si viene sempre meglio affermando in Europa, anche se non sempre in maniera indolore, un metavalore, ossia il convincimento che si può costruire la casa comune europea, se nessuno impone all’altro i propri valori, la propria idea del mondo, le proprie preferenze e si cerca di vivere all’ombra del pluralismo e della tolleranza. Nel pluralismo e nella tolleranza rientra a pieno titolo la consapevolezza comune che la fede cristiana può essere proposta e testimoniata liberamente senza che le si opponga illiberalmente la verità delle scienze sperimentali che non è mai un dato definitivo, ma soltanto l’esito di una ricerca indefinita. Molti anni fa, uno storico cattolico vedeva l’Europa come speranza di ideale di vita civile e come possibilità di realizzazione politica. Da allora molto cammino si è percorso in questo senso. Resta la speranza che, nella casa europea, si superino le barriere antagonistiche e ci si muova in un pregiudiziale spirito di comprensione”.

Questo è l’articolo che oggi appare decisivo, e consente di capire la frase chiave che scrive padre Spadaro, tanti anni dopo: “La grande sfida consiste nel riconoscere che siamo nel pieno di un lungo processo di costruzione dell’Europa. Esso ha i suoi iniziatori in alcuni «fondatori», ma anche in tutti coloro che hanno fatto la loro parte, da cittadini, per superare le tensioni nazionaliste e totalitarie che hanno lacerato il tessuto del Continente, e delle quali i ‘sovranismi’ di oggi sono eredi. Ma l’Europa ha bisogno ora di cittadini e non solamente di abitanti. L’Europa è unione di popoli e non soltanto di istituzioni. E sono i cittadini che devono poter essere messi nelle condizioni di prendere parte alle decisioni e di sentirsi protagonisti, soprattutto del miglioramento del processo europeo in atto”.

Siamo ancora in tempo, sapendo però che il tempo corre e i discorsi di papa Francesco sull’Europa, che il libro ripropone con i commenti di pochi anni fa, sono la conclusione che ci apre le porte sul domani che oggi potremmo scegliere, noi.

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