Con la morte di Ezio Bosso si è spenta una figura sicuramente peculiare della musica di oggi. Un uomo la cui celebrità è stata perennemente e tristemente associata alla grave malattia che lo ha afflitto, rischia di essere schiacciato da quest’ultima anche nella memoria. Ma forse per rendergli un omaggio più sincero è necessario mettere da parte questo drammatico accidente per concentrarsi sul lascito musicale.
Nel fiume di tributi che si è riversato sulla memoria del musicista torinese, in molti si sono concentrati sulla sua vena creativa, sulle sue composizioni e sul suo estro comunicativo, ma forse in pochi hanno reso veramente omaggio al suo approccio musicale.
Bosso è nato alla musica come contrabbassista, compiendo il duro lavoro di formazione di quasi un decennio che è necessario per ogni strumentista ad arco. E proprio il contrabbasso, uno strumento che costruisce le musiche dalle retrovie dell’orchestra ma al tempo stesso estremamente popolare (basti pensare che Gianni Morandi e Max Gazzè sono due contrabbassisti diplomati), gli ha insegnato l’approccio umile che applicava al suo lavoro poi una volta salito sul podio, ma anche l’importanza di ogni singolo componente del corpo orchestrale. E poi il rigore della formazione “accademica”, che ha fatto di lui un musicista esigente e rigoroso, come amava ricordare a dispetto dell’immagine della statuina che, parole sue, gli si era costruita attorno.
Non ho mai conosciuto Ezio Bosso, ma ho incontrato la sua musica e soprattutto ho la fortuna di avere amici che hanno fatto musica con lui, dai contesti più intimi della musica da camera fino a professori d’orchestra che hanno costruito insieme a lui i capolavori che ha diretto nella sua carriera dal podio.
Alcuni potrebbero obiettare che De mortuis nihil nisi bonum, dei morti non si dice mai nulla che non sia buono, e invece Bosso di polemiche ne aveva scatenate eccome: ma tra tutte le persone che hanno condiviso con lui un ricordo musicale non traspare nessuna altra immagine se non quella di un musicista appassionato, professionale nel lavoro dalla prima prova fino all’inchino dopo l’ultimo applauso, forse non il più grande gigante della bacchetta ma sicuramente un musicista fuori dal comune, anche – ma non solo – per il tragico destino che lo ha colto.
L’altro aspetto fondamentale per capire il lascito di Bosso traspariva nel suo rapporto con il pubblico, dalla sua prima apparizione sanremese fino alle lezioni-concerto in diretta televisiva durante lo scorso anno nel ciclo “Che Storia è la musica” (oggi su RaiPlay).
Probabilmente Bosso non verrà ricordato come il più grande interprete della sua generazione o come grande compositore, ma la sua capacità comunicativa capace di conquistare il pubblico del 2020 in prima serata lo ha distinto da tutti gli altri.
L’Italia ha una grande storia di divulgazione musicale, da Luciano Berio a Roman Vlad, e c’è stato un tempo non troppo lontano in cui i canali Mediaset trasmettevano in prima serata le lezioni di Leonard Bernstein; ecco, Bosso è riuscito a trarre una lezione da ciascuno di questi giganti, si è seduto sulle loro spalle ed ha cercato di raccontare qualcosa anche a noi, il pubblico del ventunesimo secolo con le sue peculiarità, i suoi tempi esasperati e la sua frenesia, a divertirci e a commuoverci. E forse questo è il suo regalo più grande.