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C’è un giudice in Germania. Le misure anti Covid devono essere proporzionate…

Un cittadino tedesco che ha una casa di vacanze nel sud della Svezia (Paese in cui non sono stati presi provvedimenti autoritativi per contrastare il Covid-19) si è visto imporre una quarantena al suo rientro in Germania. Il cittadino tedesco ha fatto ricorso al tribunale amministrativo della Bassa Sassonia. Questo tribunale, in pochi giorni con una decisione di 30 righe  annulla il provvedimento senza possibilità di ricorso (der Beschluss ist unanfechtbar).

Qui non ci interessa tanto mettere in evidenza la rapidità della decisione e la sua chiara semplicità. Più interessante ci sembra la sua motivazione: il provvedimento non viene considerato proporzionato visti i pochi casi nel mondo (im Hinblick auf die weltweiten Fallzahlen). Dietro a questa decisione si trova tutta un filosofia di gestione della cosa pubblica in generale e della emergenza Covid-19 in particolare: evitare al massimo l’uso dell’autorità e concentrare gli sforzi della struttura pubblica sul versante dell’erogazione di prestazioni tecnicamente qualificate.

Qui probabilmente abbiamo qualcosa su cui meditare in Italia nel momento in cui si sta avviando la mitica Fase 2. La Germania si caratterizza per misure molto blande sul versante del confinamento (le imprese non hanno mai smesso di lavorare, i cittadini non sono stati sottoposti a misure di confinamento a casa etc.) e per un numero molto basso di casi. Numero di casi tanto basso che molti hanno avanzato la maligna ipotesi che si trattasse di numeri manipolati.

I numeri non sono manipolati ma sono il risultato di un lavoro serio di preparazione. Lavoro serio di preparazione che risale alle epidemie degli ultimi anni e che ha dato luogo allo sviluppo di vari protocolli. Il fondamentale pilastro del successo dell’approccio tedesco è stato l’esclusione dell’ospedale dal trattamento dell’epidemia e il concentramento degli sforzi nella medicina del territorio.

Il paziente viene visitato e curato a casa. Subito, all’emergenza dei primi sintomi. A questo scopo la Germania ha fornito i suoi medici generalisti di tutta la strumentazione protettiva (maschere, guanti etc.) acquisita e stoccata in precedenza con la logica della formica. Da noi l’ammalato è stato lasciato a casa e veniva ricoverato quando non era più in grado di respirare, quando era troppo tardi. I nostri medici ospedalieri devono essere veramente bravi se sono riusciti a contenere le perdite intorno al 20% dei moribondi che venivano loro portati.

Da noi la medicina territoriale di base è stata di fatto spazzata via dalla riforma della L. 833 del 1978. Il nostro medico di base è stato ridotto ad un burocrate passacarte. Un ulteriore pilastro del successo tedesco è il trattamento dei dati e dell’informazione. Da noi i dati vengono raccolti a scopo di certificazione amministrativa e non vengono usati come supporto delle decisioni. In Germania succede il contrario.

Da noi l’ufficiale di anagrafe del comune (che agisce su delega dello Stato ed è sottoposto all’autorità del Ministero dell’Interno) raccoglie i dati sui morti immediatamente dopo il decesso. Perché i dati sui decessi ci vengono forniti dall’Istat sulla base di indagini a campione e non dal Ministero dell’Interno non su un campione ma sulla totalità dell’universo considerato? È accettabile che nelle nostre Asl non esista un datawarehouse che permetta l’incrocio di dati in modo da dedurne informazioni? I dati da cui derivare le informazioni devono essere dedotti dalla routine lavorativa e non devono essere prodotti da attività di ricerca extra routine! È accettabile che le unità operative prevenzione di molte Asl non abbiano protocolli? Tutte queste unità dichiarano di ispirarsi alla metodologia Iso ma nessuna ha un “manuale della qualità”!

Una ulteriore differenza del caso tedesco rispetto a quello italiano è rappresentata dalla circolazione dell’informazione e dalla autonomia del professionista medico rispetto alla struttura amministrativa. I medici tedeschi hanno da subito cominciato a scambiarsi informazioni su come trattare i pazienti affetti da Covid-19 e hanno cominciato a ipotizzare terapie che si stanno dimostrando di successo. Da noi il medico deve attendere istruzioni provenienti da strutture amministrative.

La possibilità di contrastare il virus da subito a casa è stata ulteriormente minata da questa burocratizzazione estrema della professione (rimando qui ad una serie di considerazioni più generali sviluppate nell’ambito del rapporto tra tecniche di compliance e risk management da me fatte sulla piattaforma risk&compliance ). Da noi la burocrazia sanitaria sta rendendo difficile la messa in opera dell’approccio trial and error proprio di una comunità di professionisti.

Il problema qui non è solo italiano. Su questo campo ci troviamo insieme a Francia e Spagna, insieme a quei paesi dove la tradizione giacobina ha spazzato via la autonomia delle professioni. Nel mondo di lingua germanica per divenire professionisti non si deve superare un esame di Stato ma si deve seguire un percorso gestito dalla comunità dei pari. Il nostro esame di Stato è in effetti la porta aperta alla politicizzazione del ruolo del primario.

Nella preparazione della così detta Fase 2 sarebbe, secondo me, preferibile che, anziché concentrarsi su misure di limitazione delle libertà, misure poco compatibili con una reale ripresa dell’attività economica, e probabilmente di utilità sanitaria limitata, ci si concentrasse sugli aspetti relativi piuttosto alla resilienza, sugli aspetti tecnici relativi a come affrontare i contagiati in tempo prima che diventino dei moribondi incurabili.

Qui mi permetto di avanzare una ipotesi suffragata da indizi ma non provata popperianamente. Sembra che tutti i sistemi sanitari del mondo – non solo quello italiano ma anche quello tedesco, olandese, francese etc. – si siano basati sulle esperienze condivise dai sanitari cinesi dove il virus sembra essere comparso per primo. Sembra di capire che, sulla base delle indicazioni cinesi, i medici di tutto il mondo abbiano messo in atto terapie basate sulla ipotesi che il virus creasse difficoltà di respirazione e che quindi i pazienti venivano intubati. Con il tempo ci si è poi resi conto,(sulla base di autopsie fatte in Italia; sembra che in Cina siano state fatte pochissime autopsie) che il problema sia non di respirazione ma di circolazione.

Gli intubamenti sarebbero quindi inutili (alcuni amici medici mi segnalazione la pericolosità dell’intubamento) mentre terapie fluidificanti praticabili anche a casa risulterebbero molto efficaci. Qui non vorrei essere frainteso. Non mi associo al dibattito sulla “colpa” della epidemia. Mi chiedo però quale sia stato il motivo per cui sistemi sanitari molto sofisticati si siano potuti “affidare” ai suggerimenti cinesi, suggerimenti provenienti da un paese che ancora oggi non ha un’anagrafe e non ha un sistema di fognature. Non c’è da meravigliarsi se la Cina, con strutture pubbliche e sanitarie fatiscenti , abbia fatto ricorso a provvedimenti autoritativi, gli unici in grado di mettere in atto.

La decisione del tribunale amministrativo del Niedersachsen dovrebbe indurci, comunque, a pensare che l’esercizio dell’autorità deve essere proporzionale al problema e che prima dell’autorità c’è una risposta tecnica da mettere a punto. Qui i nostri governanti sono chiamati a cavalcare la tigre in corsa: a prendere delle misure di gestione sanitaria prima che di polizia amministrativa.


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