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La globalizzazione è finita (come dice Trump)? Ecco cosa pensano gli esperti

Un requiem alla globalizzazione, direttamente dalla West Wing. In un’intervista a Fox Business con Maria Bartiromo il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha detto che i giorni della globalizzazione “sono finiti”. “Che fine hanno fatto i globalisti? Quelli che pensano che dobbiamo rendere più ricco il mondo a nostre spese?” si è chiesto commentando la crisi del Covid-19, lo scontro su più fronti con la Cina di Xi Jinping, la necessità di un decoupling delle catene di fornitura americane da quelle cinesi, la crisi delle organizzazioni multilaterali. Davvero la pandemia ha rivelato che la globalizzazione ha i giorni contati? È solo campagna elettorale o una presa d’atto della realtà sentenziare che quei tempi sono “finiti” e la rottura definitiva con la Cina è inevitabile? Formiche.net lo ha chiesto ad alcuni dei maggiori esperti italiani di Stati Uniti.

MARTA DASSÙ, SENIOR ADVISOR ASPEN

Dall’intervista a Fox News, ma giudicando anche dall’intera gestione della pandemia, Trump ha apparentemente deciso che combattere il virus attraverso un duro attacco alla Cina gli conviene politicamente. In parte Trump coglie un punto reale: la Cina è all’origine del problema e ha lungo cercato di nasconderlo. In parte, sa che mentre sulla gestione del virus potrebbe perdere le elezioni, su una linea dura contro la Cina esiste ormai un vasto consenso nel Paese (da una classe media colpita dalla globalizzazione fino ai democratici). Minacciare il decoupling è parte di una strategia di pressione: la Cina è il grande beneficiario della vecchia globalizzazione ed è molto più dipendente dalle esportazioni di quanto non sia l’America. E rientra in una visione economica che privilegia il mercato interno e il reshoring. È chiaro che questo tipo di riconversione sarà in ogni caso parziale e avrà costi alti anche per le imprese americane. Ma una tendenza alla “de-globalizzazione”, già in corso, si rafforzerà. E la vitalità del sistema americano, combinato alla forza del dollaro, permetterà agli Stati Uniti di reggere meglio questo processo di quanto non riuscirà a fare la Cina.

PAOLO MAGRI, DIRETTORE ISPI

I giorni della globalizzazione come la abbiamo conosciuta negli ultimi decenni erano “già finiti “prima della pandemia: i dazi di Trump, Huawei, l’enfasi sui “champions” industriali, persino in Europa. La crisi scatenata dal virus sta accelerando tutto ciò: ci ha fatto toccare con mano che le catene di valore globalizzate sono a rischio di interruzione e che servono produzioni nazionali per beni essenziali. La narrativa di Trump sulle responsabilità cinesi, sul “laboratorio di Wuhan”, renderà poi inevitabilmente più difficili gli investimenti e il commercio con la Cina. E l’Europa rischia di trovarsi in mezzo a un clima di ricatti.

NATHALIE TOCCI, DIRETTRICE IAI

Covid-19 tende ad essere un acceleratore delle dinamiche esistenti. La dichiarazione di Trump non è che una conferma di un trend già in corso. Da dieci anni viviamo un periodo di messa in discussione della globalizzazione, da tre si discute del decoupling delle economie americana e cinese. Non è una discussione limitata al mondo repubblicano, il Partito democratico è ancora più agguerrito nei confronti della Cina. L’escalation fra Cina e Usa è un dato di fatto. Non ne segue però necessariamente una nazionalizzazione dell’economia americana. Molto dipenderà da chi vincerà le elezioni di novembre. È verosimile che una seconda amministrazione Trump spinga il Paese verso una chiusura in se stesso e abdichi al suo ruolo di leadership globale. È altrettanto plausibile che un’amministrazione guidata da Joe Biden, pur inserendosi nella scia di conflittualità con la Cina, accantoni la linea protezionista e imbocchi la strada di una nuova convergenza transatlantica.

GENNARO SANGIULIANO, DIRETTORE TG2

Trump non è un intellettuale alla Obama ma ha grande fiuto, ha la capacità di percepire la realtà e le sue pulsioni. La globalizzazione è stata la grande illusione del nostro tempo, concettualizzata da Fukuyama quando decretò la fine della storia. Le “sorti progressive” hanno fallito, le nazioni, la storia dei popoli, e soprattutto gli individui tenderanno a riappropriarsi del loro spazio esistenziale. La globalizzazione ha perpetrato una sorta di nichilismo che voleva ridurre il cittadino (destinatario di diritti e doveri) in un mero codice a barre. In questo scenario la Cina ha tentato di trasformare la globalizzazione in un veicolo, a volte subdolo, per affermare la sua egemonia economica. Trump ha capito che ora gli umori sono diversi e vuole trasformare la lotta ai limiti della globalizzazione nella punta di lancia della sua battaglia.

GIOVANNA PANCHERI, SKY TG24

Le parole di Trump sono arrivate in un’intervista a Fox News in cui ha detto di essere deluso dalla Cina e di valutare un’interruzione dei rapporti con Pechino. È un dato di fatto che la globalizzazione non potrà tornare prima che ci sia un vaccino per il Covid-19. Fino ad allora continueranno le restrizioni dei viaggi e dell’interscambio, così come la sfiducia e il sospetto nei confronti della Cina. È anche vero che il giorno dopo aver dichiarato la fine della globalizzazione, Trump ha esultato per l’apertura negli Usa di una fabbrica di chip di una grande azienda taiwanese. Un altro passo per cercare di smarcarsi dalla supply chain cinese. Bisogna dunque capire cosa c’è dietro le dichiarazioni di Trump. Sa che con questa crisi potrebbe giocarsi la sua rielezione, nella fase iniziale il presidente aveva sminuito l’impatto del Covid-19, e il ritardo è stato pagato al prezzo di vite umane. Le conseguenze economiche sono devastanti, la disoccupazione è al 14,7%. La exit-strategy di Trump si muove in due direzioni. A livello nazionale il presidente sposta l’attenzione sulla riapertura, cerca il voto di chi ha perso il lavoro. A livello internazionale cerca un nemico esterno. È più semplice puntare il dito contro la Cina che ammettere i gravi ritardi nella gestione emergenziale a febbraio. Ma dietro le dichiarazioni di facciata c’è una realtà diversa. Emblematico il fatto che Trump abbia richiamato la Fase 1 dell’accordo commerciale con Pechino. Il presidente si aspetta che, nonostante la crisi, il governo cinese acquisti 230 miliardi di dollari in beni alimentari dagli Usa. In fondo Trump sa che oggi non può fare a meno della Cina.

GERMANO DOTTORI, LUISS GUIDO CARLI

Le nuove dichiarazioni del presidente Trump non sono stupefacenti. Appaiono invece in linea con le aspettative generate dalla sua narrazione recente e con l’oggettivo acuirsi della rivalità sino-americana, che non è sorta ad iniziativa degli Stati Uniti, ma deriva dalle crescenti ambizioni della leadership cinese, che con Xi ha abbandonato la strada dell’ascesa pacifica per imboccare quella della rincorsa al potere mondiale. Pechino ha iniziato a convertire in forza militare e influenza politica la grande ricchezza acquisita negli ultimi tre decenni. Costruire portaerei, esplorare la faccia nascosta della Luna e triplicare la consistenza del deterrente nucleare non serve al benessere dei cinesi, ma ad altro. È poco probabile che il contenzioso commerciale creato da Trump avesse finalità esclusivamente economiche. Dazi e tariffe annunciavano invece una specie di embargo strategico light, che la pandemia e soprattutto le modalità della sua gestione da parte di Pechino ora renderanno più stringente, forse biforcando la globalizzazione. L’argomento sarà certamente parte del confronto elettorale con Biden il quale, di suo, propugna a sua volta un’agenda abbastanza chiaramente anticinese, ma potrebbe essere sostenuto contro Trump da una serie di stakeholders statunitensi che non vogliono assistere a un duello tra Washington e Pechino, desiderando piuttosto un compromesso, e che non mancherebbero di esercitare pressioni su una Casa Bianca nuovamente sotto il controllo del Partito democratico.

GIAMPIERO GRAMAGLIA, AFFARI INTERNAZIONALI

La frase di Trump può apparire persino paradossale. In fondo la pandemia più che la fine della globalizzazione costituisce il suo apice: colpisce tutto il mondo, senza distinzioni, e in modo molto rapido, non trova ostacoli sul suo cammino. Il Covid-19, semmai, ha dimostrato la carenza di governance della globalizzazione. Non esiste un’autorità, che sia l’Oms, il G7 o il G20, in grado di prendere misure per fermare in tempi brevi il virus. In poche parole, la dichiarazione di Trump mi sembra un’oggettiva sciocchezza. Perché l’ha pronunciata? Perché l’avversione di Trump alla globalizzazione e al multilateralismo nasce da una visione della politica estera unicamente incentrata sull’interesse nazionale, o su quello che ritiene tale, sul prevalere dell’interesse americano su qualsiasi altra considerazione. Come il presidente non vuole cedere un metro agli interlocutori statali che lo ostacolano, così pensa che un’America forte non debba mettersi mai in discussione con i suoi interlocutori internazionali.

LUCIANO BOZZO, UNIVERSITÀ DI FIRENZE

La globalizzazione non è un epifenomeno economico e sociale. È invece frutto di un insieme di processi di internazionalizzazione economico-finanziaria e culturale di lungo periodo, iniziati perlomeno nel XVI secolo e in larga misura compiuti nella seconda metà del XIX. Che la ricchezza non fosse più “delle nazioni”, come poteva ancora scrivere Adam Smith, era già chiaro agli estensori del Manifesto nel 1848. Due guerre mondiali e totali, intervallate dalla crisi del ‘29 e dalla successiva Grande Depressione, non hanno impedito il consolidamento di un sistema economico e finanziario di scala planetaria, sostenuto da molteplici, lunghe e complesse “supply chain”, divisione del lavoro, cultura della mercificazione, dominio della tecnica. Che una pandemia pur seria, la quale produrrà certamente effetti economici e politici, possa tuttavia invertire una simile tendenza plurisecolare mi appare quantomeno dubbio. Non ci sono invece dubbi sul fatto che essa peserà nel confronto per l’egemonia tra Stati Uniti e Cina. Il saldarsi di fenomeni biologici, climatici e delle loro conseguenze economiche e socio-politiche ha già determinato nella storia mutamenti decisivi della distribuzione di potenza nel sistema internazionale.

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