“Che fine hanno fatto i globalisti? Quelli che pensano che dobbiamo rendere più ricco il mondo a nostre spese? Quei giorni sono finiti”. Il presidente Donald Trump suona il requiem per la globalizzazione dalla West Wing. Intervistato da Maria Bartiromo per Fox Business, spiega perché dal Covid-19 non si torna indietro.
“Non voglio parlare con Xi Jinping”, ha esordito Trump parlando della crisi diplomatica con la Cina. La pandemia ha acceso i riflettori sulla dipendenza delle catene di fornitura americane ed europee dalla Cina. Quel filo, promette ora Trump, deve essere spezzato. “Possiamo tagliare tutte le relazioni con la Cina. Se lo facessimo risparmieremmo 500 miliardi di dollari”.
Il tema del de-coupling da Pechino è da anni all’attenzione dei policy-makers di Washington Dc. Trump ne ha fatto un cavallo di battaglia su cui intende montare un’altra volta in cerca della rielezione a novembre. È un problema che tocca da vicino la sua core constituency.
Quando la Casa Bianca ha alzato la posta nella guerra dei dazi con la Città Proibita, quando ha scelto di interrompere i collegamenti aerei con la Cina per prevenire la diffusione del virus, sono stati anche i suoi elettori a pagarne il prezzo. Dal manifatturiero all’agroalimentare, fino alla più liberal e democratica Silicon Valley, il cordone con cui la globalizzazione ha legato il mondo produttivo americano a quello cinese è difficile da interrompere da un giorno all’altro.
Trump non ha intenzione di optare per le mezze misure. “Quali incentivi prevede per chiedere alle aziende americane di tornare a produrre negli Stati Uniti?” gli ha chiesto la giornalista di Fox News. “L’incentivo è tassarle se continuano a produrre fuori. Sono loro che devono fare un gesto verso di noi, non il contrario”, le ha risposto lui. “Trump aveva ragione, e tutti gli davano contro – ha continuato il presidente – abbiamo queste stupide catene di fornitura in tutto il mondo, se un solo tassello viene meno crolla tutto, dobbiamo produrre negli Usa”.
“Le parole di Trump riflettono i tentativi di quest’amministrazione di rimodulare il commercio internazionale – commenta a Formiche.net Andrew Spannaus, analista geopolitico e saggista americano – due giorni fa il Rappresentante speciale per il Commercio Robert Lightizer è arrivato alla stessa conclusione. Finora ci sono stati tentativi di riportare la produzione negli Usa ma sono rimasti a metà. Il de-coupling con la Cina si è spesso tradotto nello spostamento della produzione da altre parti del mondo, come in Vietnam o in Messico”.
Per convincere le aziende Usa a rinunciare alle sirene cinesi e a tornare a produrre oltreoceano, dice Spannaus, bisogna “andare oltre un ragionamento di costi-benefici nel breve periodo: è vero, produrre in Cina costa meno, ma ha costi sociali e ambientali altissimi, e rende il sistema produttivo americano vulnerabile, come insegna questa crisi”.
Un modo per fermare l’emorragia di aziende Usa è “investire nelle infrastrutture, nella produttività e nella ri-qualificazione della forza lavoro; ci sono aree dell’economia dove non si trovano lavori qualificati; per farlo gli Usa stanno monetizzando il debito come il Regno Unito e il Giappone, il più grande errore da commettere, ma qualcuno in Europa non vuole capirlo, è fermarsi per evitare di creare debito pubblico”.
Le stoccate di Trump a Xi e al governo cinese non sono ordinarie e anzi segnalano che il fattore-Cina sta lentamente pervadendo la campagna elettorale per le elezioni di novembre, conclude Spannaus. “Per vincere contro Joe Biden, Trump dovrà cercare di sfruttare la questione cinese collegandola alla ricostruzione dell’industria americana, il manifatturiero in questi anni è cresciuto poco rispetto alle aspettative. Ma la verità è che, Cina a parte, la sorte del presidente è legata alla crisi sanitaria e alla gestione del virus”.