In questi mesi, per la prima volta nella recente storia repubblicana, il rapporto tra l’Italia e la Repubblica Popolare cinese è fortemente entrato nel dibattito politico. L’epidemia di Covid-19 ha portato la Repubblica Popolare al centro dell’attenzione, prima con le drammatiche cronache da Wuhan poi con i tentativi di proiezione di Pechino in Europa, soprattutto in Italia. Un Paese geograficamente lontano e culturalmente molto distante dall’Italia è entrato a pieno titolo nel dibattito pubblico. Già nello scorso anno la firma del Memorandum sulla Via della Seta aveva anticipato il clima politico odierno. Con gli schieramenti divisi tra filo Pechino e avversari della Cina mentre decine di mappe e infografiche illustravano il percorso della Nuova Via della Seta e l’incredibile avanzata dell’economia cinese. Ma dopo qualche settimana la Repubblica Popolare cinese è lentamente scomparsa dalle pagine dei quotidiani per tornare sempre più centrale con la pandemia.
La capacità organizzativa di Pechino di fronte all’emergenza Covid-19 sembra ora essere diventata un modello per tutte le nazioni. Mentre la Repubblica popolare cinese è un riferimento per una significativa parte dello schieramento politico italiano, in una situazione surreale che rievoca gli scenari della Guerra fredda. La principale differenza rispetto alla contrapposizione Usa-Urss è l’evidente mancanza di una cornice ideologica. Il soft power cinese sembra aver conquistato i cuori e le menti di antagonisti della supremazia statunitense, di nostalgici dei regimi comunisti, di novelli esploratori dell’estremo Oriente, di pragmatici economisti dell’ultima ora, improvvisati affaristi, di sostenitori dell’uomo forte al comando e di politici dal futuro incerto alla ricerca di opportunità. Un mix esplosivo e contraddittorio che resta incomprensibile persino nel delicato e complesso momento che l’Italia sta vivendo.
È necessaria una ricostruzione dei rapporti sino-italiani per poter comprendere il futuro delle relazioni tra Roma e Pechino in questo momento di incertezza quando tutti gli equilibri sembrano insicuri. La Repubblica Popolare cinese è stata un partner cruciale per l’Italia, i prodotti italiani hanno fatto registrare degli ottimi numeri in Cina prima dell’emergenza Covid-19 e sono una fetta importante del nostro export. Al di là degli scenari post pandemia difficilmente possiamo fare meglio in Cina, la struttura delle nostra economia con poche imprese di grandi dimensioni non facilita la penetrazione nel Paese. Da decenni si parla della necessità di “fare sistema” per entrare in maniera decisa nel mercato cinese, ma le difficoltà sembrano insormontabili. Mentre le esperienze del passato, su tutte il disastroso fallimento del centro dell’eccellenza agroalimentare tricolore Viva Italia a Pechino nel 2009, non sono incoraggianti. Dobbiamo poi considerare una forte contrazione del mercato cinese, che soffrirà in maniera consistente il basso potere d’acquisto occidentale nei prossimi anni. L’economia della Rpc, fortemente incentrata sull’export, sarà inevitabilmente ridimensionata dalla crisi globale. Molti elementi sono incerti per il futuro prossimo, l’inevitabile crisi economica che seguirà la pandemia e il nuovo assetto della politica internazionale sfuggono a ogni possibile previsione.
Gli analisti politici e le scienze sociali sono probabilmente gli attori meno indicati per tracciare il possibile percorso all’indomani della risoluzione della crisi del Covid-19. Tuttavia un brevissimo excursus storico sulle relazioni tra la Repubblica Popolare cinese e il nostro Paese possono essere utili per comprendere la direzione da intraprendere. La distanza geografica tra l’Italia e la Cina è un dato certo. Marco Polo, Matteo Ricci e perfino la breve parentesi coloniale di Tianjin, percepita in Cina come la più grande offesa alla millenaria storia del Paese, sono stati recentemente citati come esempi della vicinanza tra i due Paesi. Ma l’Italia è arrivata alla Cina e alla cultura cinese in grande ritardo rispetto agli altri Paesi europei, eminenti sinologi e orientalisti italiani hanno dato un grande contributo allo studio della lingua e della cultura cinese ma si è trattato di casi singoli. Rispetto a Francia, Germania, Regno Unito, Stati Uniti e molti altri Paesi occidentali la nostra conoscenza della Cina è avvenuta principalmente attraverso lo studio della lingua, la maggior parte degli esperti nostrani in cose cinesi si è formata in ambito linguistico per poi specializzarsi in ambiti diversi. I nostri rapporti con la Cina, nonostante i ricorrenti libretti celebrativi stampati in occasioni istituzionali, sono deboli e labili se confrontati con i nostri partner europei. Il delicato rapporto con la Repubblica Popolare cinese dovrebbe essere incluso all’interno di una riflessione più ampia sull’azione di Pechino in altri Paesi, Australia e Nuova Zelanda su tutti, e sulla peculiare proiezione cinese nel mondo. Senza creare inutili contrapposizioni tra schieramenti anti Cina e pro Cina, ma considerando sia l’interesse nazionale e la cruciale importanza del mercato cinese sia la necessità di preservare la sovranità nazionale in temi delicati come quello delle infrastrutture tecnologiche.
La proiezione cinese è innanzitutto il prodotto di una fragilità strategica, Pechino è un importante partner economico per tutti i Paesi del mondo. La straordinaria avanzata di Pechino in campo tecnologico ha stupito tutti quanti e gli equilibri dell’economia globale sono strettamente legati alla Repubblica Popolare cinese. Ma la reale capacità cinese di esprimere una egemonia negli equilibri mondiali è scarsa, basta una rapida verifica agli asset strategici delle diverse nazioni per scoprire un attore incapace di competere con gli Stati Uniti ma anche con la Russia. La tenuta economica della Cina, all’indomani della pandemia Covid-19, sembra incerta, e di conseguenza l’implicito patto che il Partito comunista cinese ha stipulato con la popolazione basato su una rinuncia alle libertà civili a fronte di un benessere diffuso è in bilico. Il mito del Dragone è legato a una abile narrazione di Pechino ma soprattutto alla ricorrente mitologia del declino dell’Europa alimentato dagli intellettuali nostrani. Specialmente in un periodo di crisi strutturale e sistematica come quella che stiamo vivendo è necessario stabilire un piano programmatico per navigare l’incertezza. L’unica bussola sembra quella della difesa degli interessi nazionali. Un percorso che prevede un approccio equilibrato nei confronti degli alleati ma soprattutto una difesa sia dei valori democratici sia degli asset strategici, in grave pericolo vista la odierna debolezza del sistema economico del Paese.