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Vi spiego la politica estera italiana post Covid-19. Parla Manlio Di Stefano

Cosa resterà della pandemia nelle relazioni internazionali? Si innescheranno nuove dinamiche? Ci saranno riassetti, modifiche, inasprimenti o regolarizzazioni di situazioni già in corso? E tutto questo come influirà sull’Italia? Formiche.net ne ha parlato con Manlio Di Stefano, esponente del Movimento 5 Stelle, sottosegretario di Stato al ministero degli Affari esteri nei governi Conte I e Conte II.

L’epidemia prodotta dal nuovo coronavirus è di fatto un passaggio storico. Prendiamo spunto da Limes, che ha titolato il suo ultimo numero “Un mondo virato”: che cosa lascerà questa fase nelle relazioni internazionali e nella geopolitica globale?

Ho un timore e una speranza. Il timore è che l’onda lunga della crisi economica possa inasprire le tensioni internazionali creando nuovi ambiti di scontro, che andrebbero certamente a pesare sulla ripresa, cosa di cui non abbiamo certamente bisogno. La speranza invece è che, almeno i Paesi like-minded, possano iniziare a percorrere una nuova strada lastricata di cooperazione e condivisione, di cui abbiamo bisogno sia in termini sanitari che economico-commerciali. Occorre “virare” verso uno schema che ponga al centro i bisogni delle popolazioni, dal diritto ad un ambiente salubre a quello ad un reddito garantito, passando per la salute.

E più nello specifico: per l’Italia?

L’Italia ha avuto conferma di come gli investimenti in relazioni internazionali diano sempre i loro frutti. I Paesi sui quali abbiamo investito maggiormente, alle volte essendo anche criticati per questo, sono quelli che ci hanno aiutato maggiormente. Solo per citarne alcuni direi Stati Uniti, Cina, Russia e l’area dei Balcani, con l’Albania in prima linea.

La crisi sanitaria si è diffusa in modo disomogeneo. Si è generata nell’Hubei cinese, poi ha colpito con forza l’Italia (ma anche in questo caso in modo differenziato), si è allargata all’Europa per sfociare infine negli Stati Uniti: tutto seguendo un lag allineato longitudinalmente da est a ovest. Nella sua propagazione sembra aver messo a nudo faglie geopolitiche e debolezze del sistema mondiale. Nel medio termine, che effetto avrà su alcune delle macro-dinamiche in corso?

Abbiamo sostanzialmente assistito a un reset globale che ha messo in secondo piano i temi più importanti dell’ultimo decennio sbattendocene in faccia di nuovi e molto più “vicini” a noi. Solo due mesi fa si parlava unicamente di immigrazione, Libia e Turchia: adesso ci chiediamo come riorganizzare i nostri sistemi locali per evitare in futuro la carenza di beni primari in momenti di crisi, il che passa dal cosiddetto reshoring industriale, e come imprimere una vera spinta verso la migrazione verde dell’economia, che ci garantirebbe maggiore autosufficienza. Certamente quei temi del passato ritorneranno in auge e dovremo affrontarli, ma si stanno stabilendo nuove priorità. Sarebbe miope, ad esempio, occuparci del calo del prezzo del petrolio senza chiederci come non esserne impattati in futuro. Se posso semplificare occorre ragionare sulle interdipendenze intra e extra Ue.

Un elemento interessante emerso durante le prime fasi della crisi riguarda le relazioni transatlantiche. Alcuni think tank americani hanno criticato l’amministrazione Trump perché non ha agito in modo sinergico con l’Europa, e questo ha interessato particolarmente l’Italia, che tra i Paesi europei è stato per lungo il più colpito. Contemporaneamente però Trump ha approvato un memorandum speciale per inviare 100 milioni di dollari d’aiuti all’Italia e Fincantieri ha riportato un successo industriale di assoluto rilievo negli Usa. Qual è il reale stato dell’arte dei rapporti tra Washington e Roma? E delle relazioni transatlantiche?

Le relazioni sono ottime grazie alla storica vicinanza dei due Paesi e all’eccellente lavoro politico che abbiamo fatto fin dal primo giorno con l’amministrazione Trump. Siamo altrettanto consapevoli che, giustamente, la volontà del Presidente USA sia quella di portare vantaggio al suo Paese e quindi il nostro rapporto è molto franco e motivato, da entrambi i lati, da una logica win-win. Certo, questo non sempre si sposa con la difficile comprensione d’oltreoceano del fatto che le politiche verso l’Unione Europea impattino sempre su tutti i suoi membri, un esempio lampante l’abbiamo avuto con le sanzioni per il caso Airbus (per citarne uno).

Si sta iniziando a chiedere conto alla Cina di eventuali falle di bio-sicurezza che hanno fatto da scaturigine al virus. Si parla poi di possibili ritardi nella comunicazione sullo stato dell’epidemia. Il Partito comunista cinese è chiamato alla responsabilità, mentre la Cina sta agendo come attore globale impegnato nell’assistere gli altri Paesi nel contenimento dell’epidemia. Aspetti interessanti per un Paese come l’Italia. È possibile innescare una cooperazione positiva e consapevole con Pechino?

Detesto i processi sommari e soprattutto quelli mediatici. È evidente che l’intero mondo voglia chiarezza e verità, e come Unione Europea stiamo collaborando a livello scientifico per raggiungere questo obbiettivo. Se da una parte siamo certi che i ritardi nella comunicazione dello scoppio del virus abbiano creato una grave falla nella diffusione del contagio, dall’altro non abbiamo ancora evidenze scientifiche che possano attribuire alla Cina alcuna responsabilità verso la sua creazione. Siamo amici della Cina, certo, ma esattamente come ho detto per gli Usa noi puntiamo sempre a collaborazioni win-win ed è quindi evidente che affideremo la nostra eventuale reazione al reperimento di evidenze scientifiche.

 

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