Da lupi guerrieri a paciosi panda. Così l’ambasciatore cinese in Italia, Li Junhua, prova ad “arrotondare” l’immagine della diplomazia cinese apparsa negli ultimi mesi particolarmente spigolosa e aggressiva.
Intervistato dal Corriere della Sera, il rappresentante di Pechino a Roma ha risposto a una domanda precisa: “Per anni la vostra diplomazia è stata riservata. Perché ora molti ambasciatori alzano il volume? Vi chiamano ‘Wolf Warrior’. Ambasciatore Li Junhua, lei è un lupo guerriero?”
Ecco la sua risposta.
La nostra politica estera si è sempre basata su mutuo rispetto, trattamento egualitario e cooperazione di mutuo vantaggio. Ci dispiace che ci siano pregiudizi e inimicizia nei confronti della Cina, nell’ultimo periodo l’epidemia è stata usata da qualche politico per diffamarci. Ricordo che solo tra marzo e aprile di quest’anno la Cina ha esportato 27,8 miliardi di mascherine e 130 milioni di tute protettive e 73,41 milioni di kit per tamponi e 49.100 respiratori. Di fronte alle diffamazioni i diplomatici cinesi debbono spiegare la verità dei fatti ai cittadini e ai media del Paese in cui si trovano in missione. Penso che il corpo diplomatico di qualsiasi Paese di fronte alla stessa situazione reagirebbe allo stesso modo. Credo che l’etichetta di “Wolf Warrior” non sia adeguata, forse sarebbe una metafora più azzeccata parlare di “Kung Fu Panda”.
I “lupi guerrieri”, ossia i diplomatici cinesi che sui social network sfidano (anche a colpi di fake news) l’Occidente, sono un orgoglio per il presidente Xi Jinping, un elemento centrale della sua propaganda aggressiva. Repubblica ne ha messi in fila alcuni sparsi per il mondo. C’è l’ambasciatore nei Paesi Bassi, Xu Hong, che twitta che le accuse di Trump sono un “virus politico”. C’è il portavoce in India, Ji Rong, che cinguetta che le richieste di risarcimento americane sono “ridicole e senza senso”. In Venezuela, il profilo della rappresentanza diplomatica del Dragone invita i politici locali a “indossare la mascherina e tacere”. In Francia, la feluca Lu Shaye accusa il governo parigino di aver gestito male l’emergenza.
Kung Fu Panda è uno degli asset della diplomazia culturale cinese. Basti pensare agli eventi dell’ambasciata cinese a Washington in occasione del lancio del terzo e ultimo capitolo della saga, raccontati dai media di Stato come il People’s Daily. Ecco cosa scriveva Wang Peng, research fellow al Charhar Institute e al China Institute della Fudan University, tre anni fa sul China Daily, uno degli organi di propaganda del Partito comunista cinese
Nel suo rinnovamento, la Cina non è né un malvagio drago sputafuoco, come suggerivano alcuni politici occidentali, né il malato dell’Asia orientale di un secolo fa. Preferisco pensarla come un Kung Fu Panda. Poiché la Cina è un panda, mostra un’essenza di gentilezza: così come ha promesso Xi ‘lo sviluppo della Cina non rappresenta una minaccia per nessun altro Paese. Indipendentemente dal grado di sviluppo che raggiungerà, la Cina non cercherà mai l’egemonia e non si impegnerà avventure espansionistiche’. Allo stesso tempo, il kung fu, che rappresenta la saggezza cinese, garantisce al panda determinazione e forza solide per proteggere i suoi legittimi diritti e interessi. Inoltre, non vediamo l’ora di vedere il Kung Fu Panda collaborare con i suoi partner per costruire una comunità con un futuro condiviso per l’umanità per dar vita a un futuro luminoso per tutti.
Parole che suonano profetiche oggi, lette assieme all’intervista all’ambasciatore cinese a Roma, Li Junhua. Che parla anche della Via della seta: “La cooperazione per la Via della Seta è un processo a lungo termine basato sul vantaggio comune, che si basa su molteplici forme di cooperazione. Ad esempio, l’Italia ha emesso per la prima volta i panda bond in Cina”. In un altro passaggio il diplomatico dice: “Rispettiamo l’alleanza che esiste tra Italia e Stati Uniti, non crediamo che questa debba diventare un ostacolo alla partnership tra Italia e Cina”.
All’inizio dell’epidemia l’Italia era finita nel mirino dei lupi guerrieri cinesi. Basti pensare a due casi. Il primo, quello del video fake, rilanciato anche da Hua Chunyinh, portavoce del ministero degli Esteri cinese, per sostenere che gli italiani fossero usciti sui balconi a ringraziare la Cina e a cantare l’inno cinese. Il secondo: il Global Times, megafono inglese del Partito comunista cinese, che distorcendo le parole del professor Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto ricerche farmacologiche Mario Negri, aveva sostenuto che il coronavirus sarebbe nato in Italia. Inoltre, non vanno dimenticate le campagne aggressive sui social (portate avanti anche con l’utilizzo di bot, come raccontato da Formiche.net).
Che sia stato il flop a medio termine di questa strategia a suggerire ai funzionari di Pechino in Italia di svestire i panni dei lupi guerrieri per indossare quelli dei panda?