Storia di una strage annunciata: l’Assemblea nazionale del popolo, il ramo legislativo del Parlamento cinese, ha dato il via libera all’adozione della legge sulla sicurezza nazionale di Hong Kong, approvando la proposta con 2.878 voti a favore, uno contrario e sei astenuti. La controversa legge, imposta all’ex colonia britannica in violazione della Basic Law (la Legge Fondamentale) di Hong Kong e gli accordi internazionali che ne governano il territorio, punirà secessione, sovversione del potere statale, terrorismo e atti che mettano a rischio la sicurezza nazionale. Termini che, nella migliore tradizione del regime repressivo e sanguinario del Partito comunista cinese, verranno senza dubbio interpretati nello stesso modo espansivo che ha portato all’incarcerazione e le condanne di attivisti, avvocati e dissidenti nella Cina continentale. Come ci avvertono da mesi i milioni di manifestanti a Hong Kong, quest’ultimo passo segna definitivamente la fine del paradigma “un Paese, due sistemi” che ha governato Hong Kong dalla sua consegna a Pechino nel 1997, e doveva governarlo fino al 2047 come stabilito dall’accordo sino-britannico.
Una infrazione dello stato di diritto, del diritto internazionale e del diritto di Hong Kong stesso, che non può che annunciare una strage del popolo di Hong Kong, dove già in questi ultimi giorni sono stati arrestati oltre 600 cittadini per la loro partecipazione in manifestazioni pacifiche e dove alcuni volti di spicco, come Jimmy Lai e Joshua Wong, sono già stati accusati pubblicamente dalla stampa del regime comunista di violazione dei principi contenuti nella nuova legge. Una mossa calcolata da Pechino che avviene in un momento di sperata distrazione del mondo esterno in lotta contro il Covid-19, e in vista delle elezioni legislative a Hong Kong previste per settembre, le quali vedono il campo pro-democrazia in netto vantaggio dopo le elezioni distrettuali dell’autunno scorso.
Ma la mossa è anche un chiaro messaggio al mondo democratico occidentale che in questi ultimi mesi, sebbene a volte titubante, ha voluto sostenere le aspirazioni di democrazia e libertà dei cittadini di Hong Kong. Il primo ministro Li Keqiang, ancora in chiusura dell’Assemblea nazionale, ha ribadito il primato della non-ingerenza negli affari interni come principio fondante dell’ordine mondiale secondo Pechino, invitando in particolare gli Stati Uniti ad abbandonare la “mentalità da guerra fredda” di fronte ai rispettivi sistemi sociali e culturali.
Visto le affermazioni dello stesso Li sulla rinnovata spinta di Pechino per una “riunificazione pacifica” della Cina continentale con Taiwan, il suo operato su Hong Kong e le sue dichiarazioni in merito urgono un presa d’atto da parte del mondo occidentale che il semplice dialogo e appello al rispetto delle regole non basteranno più per fermare le ambizioni del Partito comunista cinese. Tuttavia, pone una domanda molto profonda al mondo occidentale che alla fine della Seconda guerra mondiale ha scelto di optare per l’affermazione di diritti universali, governati da un sistema che li possa tutelare in ogni dove, sottomettendo i singoli Stati a uno stato di diritto internazionale. Un sistema che parte proprio del principio di ingerenza negli affari interni, qualora tali affari interni calpestano i diritti fondamentali dell’individuo, e per il quale nei decenni scorsi si sono inventati e implementati nuovi strumenti per garantirne l’implementazione, come per esempio la Corte penale internazionale. Strumenti certamente non sempre adeguati, e soprattutto spesso poco tempestivi, ma che hanno segnato la volontà di costruire un’ordine mondiale fondato sulla dignità individuale come base delle relazioni pacifiche tra Paesi.
Oggi, di fronte a una potenza mondiale come la Repubblica popolare cinese, che contrappone a quella volontà un modello diametralmente opposto, è evidente che gli strumenti a disposizione non sono sufficienti. È altrettanto evidente come la titubanza di adottarne altri in tempi adeguati, limitando anche il potere assoluto degli Stati proponenti, oggi rischia di mettere l’Occidente davanti una scelta poca appetibile: accettare il principio di non-ingerenza di Pechino lasciando i milioni di cittadini di Hong Kong, di Taiwan, del Tibet, dello Xinjiang, eccetera alla loro triste sorte, o, tornare effettivamente a uno scenario di guerra.
È un pieno ritorno della storia: dalle politiche di appeasement con il regime nazista prima della Seconda guerra mondiale alle lunghe attese prima degli interventi nell’ex-Yugoslavia. Speranze di dialogo pacifico che hanno mostrato la loro orribile inadeguatezza. Episodi di cui abbiamo imparato poi dopo, come accennato prima, ma che oggi riviviamo con prepotenza.
Domani (venerdì 29 maggio) si terrà una riunione dei ministri degli Esteri degli Stati membri dell’Unione europea, dove la questione Hong Kong è sull’ordine del giorno. Una riunione che innanzitutto avviene in evidente ritardo dinanzi la prevedibile e annunciata accelerazione di Pechino, soprattutto considerato il mandato e il dovere secondo i trattati della stessa Unione di tutelare i diritti individuali ovunque nel mondo. Però, la domanda principale per l’Unione domani non dovrà essere solo se condannare in termini chiari e netti le azioni assolutamente illegali di Pechino – condanna in tali termini peraltro non scontata – ma di come e con quali strumenti intende porre fine a questa continua espansione del totalitarismo nel mondo contro i principi sottoscritti universalmente. È un’Unione che abbiamo visto reagire con ritardo e timidezza in tanti luoghi penetrati sempre di più della stessa Repubblica popolare: dalla Cambogia allo Zimbabwe, e nelle proposte di condanna al Consiglio diritti umani dell’Onu per i crimini contro l’umanità in atto nello Xinjiang. Ritardi e timidezza di cui Pechino ha preso atto e sui quali ha costruito il suo attuale vantaggio, cercando anche di dividere gli alleati tradizionali con appelli e minacce più o meno velati.
Il segretario di Stato statunitense Mike Pompeo ha già parlato chiaramente al Congresso circa la perdita dell’autonomia a Hong Kong, dichiarazione che potrebbe portare il Congresso a sospenderne lo status economico speciale. Al contempo, il Congresso valuta l’applicazione di sanzioni individuali — chiaramente preferibili alle sanzioni economiche che colpiscono un popolo intero già martoriato — contro i funzionari che applicheranno la nuova legge sulla sicurezza a Hong Kong. Domani l’Unione europea dovrebbe perlomeno uscire dal suo stato di ambiguità e schierarsi chiaramente con quell’ordine mondiale sancito dai trattati europei e internazionali, ma deve fare di più. Non può più rinviare una profonda riflessione su come far vivere quei principi e con quali strumenti. Da anni è ferma una proposta per un Magnitsky Act europeo, evocata all’occorrenza soltanto per fermare l’avanzamento delle proposte per le sanzioni contro individui governativi nei singoli Stati membri.
E da atlantista convinta, questo non vuol essere un semplice appello inerte al “schieriamoci con gli Stati Uniti”. Non vogliamo e non possiamo aspettare il compimento dell’ennesima strage annunciata per dire un domani “mai più”. Dotiamoci oggi con forza degli strumenti utili e adeguati, in concomitanza con i nostri partner alleati per un’ordine mondiale basata sui diritti individuali, piuttosto che nasconderci dietro il solito “dialogo pacifico” che, come dimostra il passato, non solo ha portato alla sottomissione a regimi autoritari e alle stragi contro l’umanità, ha anche creato quella “dipendenza” denunciata proprio dai pacifisti dell’eterno salvatore statunitense. Sono tante le questioni esistenziali che infliggono oggi l’Unione europea. Ma se vuole avere un futuro, basata su quei sogni universali su cui è stata fondata, deve osare finalmente, assumersene la piena responsabilità. Hong Kong sarà la misura della sua volontà e capacità di farlo.