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La guerra in Libia è per procura (e continua). Il ruolo di Russia, Turchia e Siria

Due aerei da trasporto sono decollati da Damasco e dopo uno scalo a Latakia, sono arrivati a Bengasi – la roccaforte del signore della guerra dell’Est libico, Khalifa Haftar. Nello stesso momento altri tre aerei erano in viaggio su una rotta simile che tagliava da est a ovest il Mediterraneo: partiti da Istanbul, erano diretti a Tripoli e Misurata. I viaggi disegnano l’aspetto cruciale del conflitto che spacca la Libia tra Oriente e Occidente, Cirenaica e Tripolitania: il sostegno dall’esterno.

La Cirenaica di Haftar ottiene aiuti dagli Emirati Arabi e dall’Egitto, in forma più sfumata dalla Russia. Ma Mosca ha messo a disposizione dei contractor della società Wagner, militari ben addestrati spostati dai reparti di forze speciali al settore privato vicino al Cremlino per svolgere lavori senza insegne (leggasi: il lavoro sporco). Inoltre, secondo un report redatto dagli esperti della Nazioni Unite, la Russia avrebbe facilitato l’invio in Libia di uomini appartenenti a una milizia amica siriana, una forza lealista che ha sostenuto Bashar el Assad e che è diventata una quinta colonna delle operazioni militari russe nell’area MENA. Quei voli siriani verso la roccaforte haftariana spostavano mercenari? Risposta impossibile, perché il governo russo nega ogni genere di coinvolgimento, nonostante l’Onu ne sottolinei l’esistenza.

Miliziani siriani sono arrivati in Libia anche seguendo le altre rotte, quelle dalla Turchia. Si tratta di turcomanni che per Ankara hanno funzione simmetrica a quella che hanno gli assadisti per Mosca. A novembre dello scorso anno, il governo turco ha chiuso un accordo di cooperazione militare con Tripoli, dove si trova il Governo di accordo nazionale libico (Gna) – l’esecutivo che dal 4 aprile 2019 è sotto l’attacco di Haftar, che intende rovesciarlo e intestarsi il paese come nuovo rais. Ieri la Turchia ha dichiarato che considererà le forze haftariane “un obiettivo legittimo” se continueranno attacchi contro gli interessi turchi. L’annuncio è arrivato a poche ore di distanza da un bombardamento dell’artiglieria di Haftar che ha colpito un edificio a poca distanza dall’ambasciata della Turchia e dell’Italia al centro di Tripoli.

È un cambio di tono notevole, un altro dei tanti momenti delicati della crisi: Haftar sta perdendo terreno attorno a Tripoli. Tarhuna (circa 70 chilometri a sud-est della capitale) e Bani Walid (un’altra ottantina di chilometri sulla stessa linea) sono assediate: rappresentano due punti logistici per l’offensiva haftariana, e perderle sarebbe un elemento decisivo. Contemporaneamente, sul fronte del signore della guerra orientale, stanno arrivando rinforzi e c’è stata particolare attenzione attorno a sei Mirage 2000 emiratini mostrati ai satelliti nella base egiziana di Sidi Barrani. Non sono una novità, sono stati presenti già negli anni passati, ma come spiegato su queste colonne da Karin Mezran, analista dell’Atlantic Council, non si può escludere che gli Emirati decidano di usarli in modo più aperto, confidando in una sorta di impunità e assenza di controllo internazionale sulla crisi.

Lunedì, Abu Dhabi ha messo la sua firma su una nota diffusa da Cipro, Egitto, Grecia e Francia, che – dopo una ministeriale Esteri in videocall – hanno condannato l’interferenza turca in Libia. L’allineamento è componente del sistema che ruota attorno all’EastMed, la fascia di Mediterraneo orientale che fa da integratore geopolitico ed è stata finora basata sui collegamenti che un gasdotto omonimo avrebbe dovuto creare. La pipeline con ogni probabilità salterà: investimento troppo oneroso, conseguenza degli sconvolgimenti connessi alla pandemia, e parte delle dinamiche connesse si stanno rimodellando. Ankara vede il quadro come avverso, e anche per questo ha stretto con Tripoli, contemporaneamente all’accordo militare, anche un memorandum per unire le Zone economiche esclusive di Libia e Turchia – tagliando geograficamente (e dunque in modo geopolitico) il sistema EastMed.

La presenza nel comunicato anti-turco degli Emirati trova senso in questo contesto, ma anche nelle proiezioni strategiche di Abu Dhabi. Il Mediterraneo è visto infatti con un ambiente in cui muovere il proprio prolungamento geopolitico, creando continuità a una serie di scali portuali che risalgono dalla Penisola arabica su per il Corno d’Africa fino Suez, e proseguono verso la Libia. Sistema che gli emiratini vorrebbero sovrapporre alle vie della seta cinese – usando il progetto di Pechino come moltiplicatore di forza. Lunedì il Libya Observer – media vicino al Gna – riportava un’informazione arrivata da un sito marocchino (Al-Ayyam 24) che scriveva attraverso una fonte di intelligence emiratina una notizia interessante: re Mohammed VI avrebbe rifiutato un finanziamento infrastrutturale offerto dall’erede al trono di Abu Dhabi, Mohammed bin Zayed, che chiedeva in cambio il supporto a Haftar.

Formiche.net non può confermare l’autenticità del report, ma è evidente che la dimensione in cui si muove – sia a livello propagandistico che fattuale – è quella della geopolitica che ruota attorno al dossier libico. La guerra civile è infatti parte del problema, con gli attori esterni che stanno usando il teatro per combattere una guerra proxy dove si sommano le questioni nordafricane a quelle mediterranee, le faglie intra-sunnismo (tra Turchia e Qatar da un lato e regni del golfo dall’altro), interessi e proiezioni di attori extra-regionali. Mercoledì è prevista una video-conferenza organizzata dalla Farnesina per proseguire il percorso della conferenza di Berlino, hanno spiegato fonti alla AdnKronos.

(Foto: Twitter, @Gerjon_)

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