Il dibattito filologico sul monumentale capolavoro di J. R. R. Tolkien, “Il Signore degli Anelli”, è senza dubbio uno dei più ampi e affascinanti della nostra epoca contemporanea. Ormai risaputamente, l’opera di Tolkien è un’opera “fondamentalmente cattolica”, e non è la critica a sostenerlo, ma lo stesso autore nelle sue lettere pubblicate postume. Ma in che senso è un’opera cattolica? Certamente non lo è solamente per la cattolicità dell’autore, o per la presenza nel racconto di riferimenti espliciti alla devozione cattolica, che non ci sono. E non lo è nemmeno per gli stessi valori morali incarnati dai personaggi della narrazione, che al massimo potrebbero presumersi in linea con un’etica vagamente cristiana.
Lo è invece, sicuramente molto di più, per la presenza della grazia che sottende l’intera vicenda della Terra di Mezzo, e per gli elementi che attraverso il cammino della Compagnia dell’Anello conducono alla verità, stavolta sì, nel senso cristiano del termine. Seppure in maniera solamente simbolica, come ogni grande maestro della letteratura è deputato a fare. Tante altre restano, però, le domande aperte, e a farci luce in quest’avventura è Ivano Sassanelli, canonista, docente presso la Facoltà Teologica Pugliese di Bari e autore di “Tolkien e il vangelo di Gollum” (Cacucci Editore, 2020, pp.550). Un libro, quello del professore Sassanelli, che “nasce quasi per ventura, da un’intuizione venuta, si potrebbe dire ‘dall’alto’, totalmente inaspettata e straordinariamente sorprendente”, come spiega in questa conversazione con Formiche.net.
Partiamo dal titolo, come nasce il “vangelo di Gollum”? Non sembrerebbe una figura associabile a un evangelista… al contrario, è una delle più incerte del racconto. Qual è il percorso che compie questo povero personaggio, molto più simile a un pipistrello – per citare l’editoriale del Direttore dell’Osservatore Romano Andrea Monda – che a un Hobbit?
Questo titolo, che all’apparenza potrebbe sembrare quasi blasfemo, deriva da una considerazione che Tolkien compie nei suoi scritti circa l’“esemplificazione”, ossia la capacità da parte di un autore di portare, in un Mondo Secondario letterario, elementi di “principi generali” del Mondo Primario reale, senza però rappresentarli in pienezza o allegorizzarli. Certo Gollum non è un evangelista ma è semplicemente una creatura, un “pipistrello” per usare le parole dello stupendo editoriale del Prof. Monda, che molto spesso ci assomiglia. E con la quale dobbiamo fare i conti: è un bugiardo, un ladro, uno spergiuro, un omicida che viene catapultato, suo malgrado, in un’avventura incredibile che lo condurrà fino alla Voragine del Fato.
Chi è Gollum, o cosa rappresenta?
Ci si è spesso domandati cosa Gollum rappresenti: il simbolo della lotta interiore tra il bene e il male? O ancora, il prototipo di uno schizofrenico o un bipolare? O, infine, la perfetta rappresentazione di un tossicodipendente? A mio avviso egli non è niente di tutto questo. Tolkien stesso dice che Gollum non è un “tipo” ma è una creatura che in date circostanze si è comportato in determinate maniere. Sméagol e Gollum non sono due parti antitetiche e contrapposte: non si può avere una visione manichea di questo personaggio. Gollum è come ognuno di noi: in continua lotta tra modi di ragionare differenti, alle volte contrastanti; pensieri confusi e che ci mettono in crisi. E proprio in questa diatriba interna fanno breccia la Pietà e la Misericordia di tanti personaggi dei racconti tolkieniani come Bilbo, Frodo, Sam e Faramir.
La sua ricerca nasce da un versetto del Vangelo di Luca (12,34): “Perché dove è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore”. In effetti ricorda molto la vicenda della Compagnia dell’Anello…
Questa frase del Vangelo di Luca è esattamente la causa di quell’intuizione fugace e repentina di cui parlavo in precedenza. Stavo preparando la presentazione di un mio saggio intitolato “Cristo e la solitudine di Dio e dell’essere umano” quando mi accorsi che, parlando del giovane ricco, avevo citato questa frase di Gesù che diceva, per l’appunto, “Perché dove è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore”. Immediatamente, nella mia mente sorse spontanea la domanda: “Ma se Tolkien avesse pensato a questa parole di Gesù per raccontare di Gollum?”. Questa frase mi condusse ad avventurarmi nei sentieri della Terra di Mezzo insieme agli Hobbit sulle orme di un Maestro d’eccezione, ossia J.R.R. Tolkien.
Un percorso che immagino si sia preannunciato subito lungo, quasi sconfinato….
Un percorso letterario ed esistenziale che mi ha portato ad affermare che questa espressione, così come già aveva notato Andrea Monda in un suo splendido e-book intitolato “A proposito degli hobbit”, è una delle chiavi di volta per comprendere Lo Hobbit e la figura di Gollum. Tolkien, infatti, a mio avviso ha esemplificato – o personificato – tale principio generale tanto nel viaggio dei Nani e di Bilbo verso la Montagna Solitaria quanto nel personaggio di questo vecchio Sturoi che ha perseguito e inseguito quello che egli definiva “il mio Tesssoro”, nella versione originale “my Preciousss”. Proprio in merito a quest’ultima espressione ho scritto molte pagine del mio libro, alcune anche dedicate alle riflessioni del dott. Francesco Vairano (direttore del doppiaggio di Harry Potter, Il Signore degli Anelli e Lo Hobbit e voce ufficiale di Gollum e del prof. di Harry Potter Severus Piton, ndr).
Cosa ne è emerso, da questi approfondimenti?
È scaturita una mia visione molto particolare circa il modo di parlare di Gollum. Infatti, a mio avviso, il criterio secondo il quale è possibile vedere questa misera creatura, è quello della “relazione”: Tolkien ci dice che Gollum parlava al plurale non perché fosse un malato mentale, un personaggio dalla doppia personalità, ma perché egli non aveva nessun’altro con cui parlare, era solo e aveva bisogno di trovare qualcuno a cui poter dire “mio caro”, “mi sei prezioso”, “sei il mio tesoro”.
Un’interessante lettura psicologica, direi, che riporta al mondo reale.
Tolkien ha scritto i suoi racconti con finalità diverse: il suo Legendarium aveva precipuamente la funzione di dare una “mitologia all’Inghilterra”, anche se poi questo non si è mai avverato in quanto Il Silmarillion, così come pubblicato postumo da suo figlio Christopher nel 1977, si discosta dall’idea originaria di suo padre il quale, nelle ultime fasi della sua vita, stava cercando di rivedere il suo materiale mitologico alla luce dei racconti nel frattempo pubblicati. In secondo luogo Lo Hobbit, nato quasi per caso agli inizi degli anni ’30 del secolo scorso quando il Professore, impugnando una penna tra le mani, scrisse su un foglio lasciato in bianco da un suo studente, la famosa frase “In un buco nel terreno viveva uno Hobbit”, aveva portato con sé tutta la fantasia di un padre narratore di storie per i suoi figli.
Un testo inizialmente dedicato ai figli?
Un testo per bambini – si direbbe – ma che in realtà cresce mentre si svolge l’avventura di Bilbo e dei Nani guidati dallo Stregone Gandalf verso la Montagna Solitaria e culminata con la Battaglia dei Cinque Eserciti. Il Signore degli Anelli, invece, è un racconto epico a tutti gli effetti in cui gli abitanti della Terra di Mezzo (Elfi, Nani, Uomini, Hobbit, Ent, Istari) sono impegnati nella lotta contro Sauron, l’Oscuro Signore di Mordor e i suoi fedelissimi Nazgûl, gli Spettri dell’Anello. Dunque nella mente di Tolkien il percorso narrativo all’interno dei suoi racconti è stato da sempre diversificato ma allo stesso tempo complementare.
Qual è lo spirito con cui Tolkien ha scritto il romanzo, e che ruolo ha giocato San Francesco d’Assisi? Lo stesso Papa Francesco pare che sia un grande fan del Signore degli Anelli….
Il Professore compì un primo viaggio in Italia nel 1955 (il secondo risale al 1966) nel quale visitò insieme a sua figlia Priscilla, tra le varie tappe, anche Assisi. In questo viaggio, magnificamente raccontato da Oronzo Cilli nel suo testo “Tolkien e l’Italia”, il Professore stesso ha ammesso di aver avuto la sensazione “di essere giunto nel cuore della Cristianità: un esule che ritorna a casa dai confini e dalle provincie più remote, o per lo meno giunge alla casa dei suoi padri”. Questa “sensibilità e spiritualità francescana” – approfondita anche da padre Guglielmo Spirito nel suo libro “Tra San Francesco e Tolkien” – rende lo scrittore inglese ancora più contemporaneo e vicino a noi che viviamo sotto il Pontificato di un grande amante de Il Signore degli Anelli e che, per l’appunto, porta il nome di Francesco.
Tornando a Tolkien, vorrei parlare dell’epistolario uscito postumo. Quanto è stato importante per comprendere il pensiero che soggiace al capolavoro tolkieniano?
L’epistolario tolkieniano, pubblicato da Humphrey Carpenter con la supervisione di Christopher Tolkien, è uno di quei testi fondamentali per la critica tolkieniana che, però, deve essere maneggiato con cura onde evitare che ci siano frettolose sovrapposizioni tra autore e opera letteraria. Infatti bisogna sempre tener presente che le Lettere sono corrispondenza privata, non destinata alla pubblicazione, che risentono molto del rapporto mittente-destinatario e del periodo in cui esse sono state scritte. Molti dei testi dell’epistolario sono bozze, altri sono brani completi, altri ancora sono quasi veri e propri saggi nel quale il Professore spiega al suo interlocutore i suoi racconti, le sue idee e opinioni letterarie, politiche e teologiche.
Immagino abbiano ritoccato l’idea che ci si era fatti in precedenza sul romanzo.
Tutto questo chiaramente porta lo studioso da un lato a comprendere meglio e più a fondo le concezioni e l’animo dello scrittore ma, dall’altro, lo induce a essere cauto, ben consapevole che l’opera letteraria è sempre più grande rispetto alle intenzioni del suo autore. Una cosa è certa però: chi si immerge nelle Lettere di Tolkien scopre un uomo eccezionale, con una visione stupefacente del reale, una profondità di pensiero inaudita e una fede senza pari in Dio, nella Chiesa, nell’Eucarestia e nell’essere umano.
In una di queste lettere il gesuita padre Robert Murray parlò di “positiva compatibilità con l’ordine della Grazia” e paragonò Galadriel, la nobile Dama elfica della Terra di Mezzo, alla Vergine Maria. A lei tuttavia questo paragone non la convince.
La lettera n. 142 del 2 dicembre 1953 è sicuramente uno dei testi più importanti in assoluto sulla tematica religiosa in Tolkien in quanto, l’autore stesso, in essa afferma che: “Ovviamente il Signore degli Anelli è un’opera fondamentalmente religiosa e cattolica”. Su questa frase si sono scatenati i pensieri e le riflessioni dei critici tolkieniani, vedendo una strana oscillazione di opinioni tra chi afferma che l’aggettivo “religioso” in realtà significhi “spirituale”; chi sostiene la cattolicità esplicita dell’opera; chi, invece, contrapponendosi a questa tesi, ribadisce il carattere pagano del romanzo; chi dice che il racconto contiene elementi pagani e cristiani in contrasto tra loro; chi cerca soluzioni sintetiche dicendo che l’opera è cattolica proprio perché è pagana ma in armonia col cristianesimo; chi infine rintraccia nella presenza della Grazia l’essenza cattolica del racconto.
E lei, cosa pensa?
Questi tipi di approcci, seppur legittimi, a mio avviso non tengono in debito conto il testo della missiva che come lei ha ricordato è una risposta ad alcune affermazioni dell’amico gesuita Padre Robert Murray (nipote del fondatore dell’Oxford English Dictionary). Se si analizza il testo della lettera all’interno del contesto nel quale è stata scritta, si può affermare che: in primo luogo quando Tolkien sottolinea che la sua opera è “ovviamente fondamentalmente religiosa”, sta in realtà rilevando che l’affermazione del gesuita secondo cui esisteva una “positiva compatibilità con l’ordine della Grazia” è vera e che quindi natura e sovranatura, ordine della natura e ordine della Grazia sono compresenti e in armonia nel suo racconto.
Un’opera religiosa, ma anche un’opera “fondamentalmente cattolica”.
La seconda affermazione secondo cui “Il Signore degli Anelli è ovviamente un’opera fondamentalmente cattolica” fa riferimento al paragone, compiuto da Murray, tra Galadriel e la Vergine Maria. In questo caso Tolkien, in un certo qual modo, “ha corretto” l’amico gesuita invitandolo a pensare a questa relazione non in termini di allegoria ma di rapporto “fonte” (Maria) e “personaggio” (Galadriel). In altre parole lo scrittore inglese considerava la sua fede cattolica come un fiume carsico che scorreva sotto le fondamenta di Arda e che riaffiorava come fonte qualora egli avesse avuto necessità di descrivere personaggi, luoghi o avvenimenti della Terra di Mezzo. La Vergine Maria, dunque, era la fonte dalla quale egli aveva tratto tutta la sua idea di bellezza in maestà e in piccolezza ma non poteva essere confusa o sovrapposta col personaggio di Galadriel che, pur prendendo dall’immaginario mariano cattolico, non ne era un’allegoria. In sostanza, parafrasando san Bernardo di Chiaravalle, per Tolkien non valeva l’espressione: “Guarda Galadriel, invoca Maria!”.
Nella Prefazione del suo libro, il Prof. Vito Fascina senza esitazioni colloca Tolkien tra i più importanti “raccontatori cristiano-cattolici” della storia, insieme a Dante e Manzoni.
Il Prof. Vito Fascina, oltre ad essere un mio caro amico, è da sempre uno dei più acuti e attenti studiosi tolkieniani in Italia. Quasi quindici anni fa col suo testo “Alberi e Miti” ha sottolineato l’importanza della connessione tra “logopoiesi” (ossia l’invenzione dei linguaggi) e “mitopoiesi” (cioè la creazione di miti). La sua affermazione ha colto nel segno in quanto, come Dante e Manzoni, anche Tolkien, da profondo cattolico quale era, ha saputo unire nei suoi racconti fede e ragione, filologia e letteratura, filosofia e teologia e, come ha rilevato Giovanni Carmine Costabile nel suo testo “Oltre le mura del mondo”, immanenza e trascendenza. Tolkien inoltre ha avuto uno strettissimo legame con Dante derivato dalla sua appartenenza decennale alla Oxford Dante Society tra gli anni ’40 e ’50 del secolo scorso.
E per quanto riguarda il rapporto di Tolkien con Manzoni?
Il tratto maggiormente caratteristico della relazione intercorrente tra Tolkien e Manzoni è, senza dubbio, l’importanza della Provvidenza: esplicitamente invocata nei Promessi Sposi, resta nascosta e silenziosamente presente ne Il Signore degli Anelli. E infatti si può affermare che in questo capolavoro della letteratura mondiale del Novecento, in ogni pagina è possibile rintracciare l’azione del “Deus absconditus”, di Eru, dell’Autore della Storia che, come direbbe Tolkien, è sempre presente anche se mai esplicitamente nominato.
Qual è il messaggio che ci lascia il Signore degli Anelli, e come valorizzarlo nell’oggi, tanto nella società contemporanea quanto persino nell’attuale crisi che stiamo vivendo?
Sam Gamgee, il fedele giardiniere e compagno di avventure di Frodo, alle porte di Mordor afferma che le storie e i grandi racconti non finiscono mai. Anche noi oggi siamo parte di quel racconto e anche noi abbiamo bisogno di un libro dai caratteri neri e rossi – ossia Il Signore degli Anelli – da poter leggere e nel quale poterci immergere per trarne linfa vitale. La letteratura fantastica, diceva Tolkien nel suo saggio “Sulle Fiabe”, non rappresenta una “fuga del disertore” ma “l’evasione del prigioniero”, ossia permette ai lettori di esplorare mondi sconosciuti, di imbarcarsi su vascelli fatti di parole e immagini che permettono alla mente di ristorarsi e al cuore di accedere a orizzonti lontani ma così profondi e arditi da far provare una gioia nuova che Tolkien ha chiamato “eucatastrofe”, ossia una buona catastrofe, una felice realizzazione dell’avventura.
Mi viene da pensare che abbiamo forse bisogno di tornare alle grandi narrazioni, per citare le tesi sul post-modernismo del filosofo marxista Jean-François Lyotard, di fronte alla frammentazione del linguaggio, all’incertezza della scienza, alla crisi del pensiero umanistico e alla caduta dei valori…
Le opere di Tolkien non sono una fuga dal mondo né, tantomeno, vogliono essere una ripresa del mondo della tradizione (esoterica, gnostica o neopagana che sia) ormai considerato perduto e di cui a tutti i costi ci si deve riappropriare in una lotta contro il mondo moderno e contemporaneo così cattivo e decaduto. Il Professore di Oxford ha solo dispiegato la sua fantasia per permettere a noi, in questo momento così difficile, di comprendere che l’amicizia, l’amore, la speranza, il rispetto reciproco, la disponibilità nei confronti di una chiamata, la Pietà, la Misericordia, il perdono, il sentirsi l’uno vicino all’altro in una Compagnia che affronta insieme le avversità, non sono parole vuote ma realtà concrete, storia vissuta in un percorso magnifico e affascinante nella via che conduce alla Terra di Mezzo.