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Perché ricordare l’ammiraglio Fulvio Martini. Scrive Valori

L’amm. Fulvio Martini, triestino, e questo conta sempre moltissimo per chi sa cosa significhi, fu un dirigente dei Servizi e un ufficiale di Marina di quelli che fanno la storia del nostro Paese.

Mi ricordo quando Francesco Cossiga, che lo stimava moltissimo, mi concedeva qualche volta di rimanere e discutere, mentre lui, Martini e pochissimi altri discutevano di questioni particolarmente riservate.

Fulvio Martini fu soprattutto un grande uomo dell’intelligence, che lui aveva coltivato fin dall’inizio, o quasi, della sua carriera di Ufficiale, lavorando al Sios della Marina.

Analisi e operatività, quindi, anche nelle piccole missioni, che non sono mai tali, una capacità di sintesi straordinaria, l’attenzione alla psicologia di tutti, una brutale freddezza nel calcolo delle coordinate politiche e strategiche delle operazioni e dei risultati, un rigoroso rispetto della autonomia del Servizio. Ecco le caratteristiche intellettuali e spirituali di Fulvio Martini, oltre alla capacità di selezionare i politici davvero capaci di capire l’intelligence e quelli, invece, con non sono nemmeno intelligenti.

Autorevolissimo con i direttori dei Servizi collegati, talvolta addirittura imperioso con quelli che mancavano di rispetto all’Italia, al Sismi, ai nostri interessi strategici.

Come quando fece capire al suo collega di Parigi, sotto l’ala di un aereo, che in Tunisia avremmo comunque fatto da soli, nella fase finale del regime di Bourghiba. Che la Francia voleva gestire da sola.

A pochi capi del nostro Servizio si addice infatti la vecchia battuta di Churchill, “il prezzo della grandezza è la responsabilità”.

Era certo, e lo ha anche affermato spesso e chiaramente, che “i politici non sanno utilizzare i Servizi”. E eravamo ancora, quando Fulvio è morto, nel 2003, nelle more del passaggio tra la cosiddetta “Prima Repubblica” e il lemure informe della “seconda”. Figuriamoci cosa avrebbe potuto dire oggi.

I capi dei Servizi, diceva sempre, devono pretendere una firma per operazioni ai limiti della legge. Che sono più rare di quanto non si creda, non serve mettere il piede in fallo per fare un buon lavoro di intelligence, anche operativa.

Anzi, talvolta basta davvero poco. Ma bisogna essere bravi, geniali, fedeli al proprio Paese, attenti a non fidarsi troppo nemmeno delle gerarchie politiche ufficiali.

Fu il direttore che ebbe anche a che fare con il cosiddetto “caso Gladio”, è bene ricordarlo. Anche in quel frangente, Martini non fece vedere nessun documento se non con la prevista autorizzazione e seppe anche contrastare chi voleva che la questione “Gladio” diventasse uno stupido e inutile lavacro della classe politica, ormai diretta, già allora, verso la sua autodistruzione, che oggi vediamo quasi completata.

Cosa ne pensasse di tutta la questione mi fu chiaro quando, sempre a casa di Cossiga, a una mia domanda sull’argomento rimase silenzioso, ma con uno sguardo ironico rivolto a cielo, o al soffitto.

Provo a interpretare: lo faceva letteralmente ridere che l’Italia, unica in tutta la Nato e in Occidente, smantellasse una struttura come quella, che aveva fino a quel momento funzionato benissimo, e non per chissà quale strategia “della tensione” che, se ci fu, fu opera di Altri, lontani e vicini, con addentellati dentro gli apparati, e non mi riferisco qui ai Servizi, e nella classe politica. Anzi, tutti sapevano che Stay Behind-Gladio era in via di smantellamento, anche se rimase ancora in piedi la rete del Sud, diretta, con le stesse tecniche, contro la criminalità organizzata. E questo spiegherebbe molte cose.

Anche Fulvio Martini, in effetti, dovette occuparsi di una materia che dovrebbe essere estranea del tutto all’intelligence: i rapporti tra il Servizio e la magistratura. L’amm. Martini sosteneva, infatti, che occorresse una unica Procura che potesse visionare, all’occorrenza e cum grano salis, i documenti del Servizio, come in altri Paesi europei, e di creare uno scudo protettivo per gli agenti che si dovessero trovare in situazioni di pericolo, o che si trovassero coinvolti in azioni giudiziarie. Come prevede, ma in modo molto timido e leggero, la L. 3 agosto 2007, n. 124, che pure mostra già tutte le sue crepe.

In ogni caso, il Servizio, diceva sempre Fulvio, deve sempre stare alla larga da qualsiasi bega politica, e il suo rapporto con i parlamentari può essere mediato solo dal Copasir e dal governo, che pure ha titolarità di supervisione dell’attività dell’intelligence.

Siamo ben lontani, quindi dalla stretta correlazione tra alcuni politici e la Struttura, come vediamo, purtroppo, oggi.

Direttori selezionati per via di amicizie tra le consorti, situazioni che arrivano sui media già poste in modo da non lasciare spazio di manovra alle Strutture, pericolosi “pezzi” di notizia che adombrano e, talvolta, mettono in pericolo operazioni in corso.

Oggi, addirittura, il Servizio viene utilizzato, dalla macchina mediatica, come strumento per diffamare questo o quello o costruire carriere o, magari, decadenze politiche. Inconcepibile, e so bene che Fulvio Martini non l’avrebbe permesso.

Fulvio Martini ebbe poi, precisissima, la percezione che, con la fine della guerra fredda, o almeno con la fine della possibile evoluzione “calda” dell’equilibrio di Yalta, tutto il mondo dell’intelligence dovesse mutare radicalmente, contemplando aree di intervento e operazioni che, in un vecchio quadro di duopolio mondiale, non erano nemmeno immaginabili.

Dalla geo-economia alla psywar di terza generazione, dalla guerra economica alla protezione stabile delle nostre infrastrutture, dalle operazioni di manipolazione mediatica alle grandi azioni di influenza, Martini sapeva che il sottile filo che separa gli amici dai nemici fosse sempre più invisibile.

L’amm. Martini ebbe molto interesse, e ne parlavamo spesso, alla sicurezza industriale e economico-finanziaria, che si immaginava sarebbe stata essenziale nel mondo del post-guerra fredda. Ma fatta tutti i giorni, l’intelligence è l’essenza della politica, e non solo della politica estera.

Aveva una certa freddezza, me ne accorsi presto, nei confronti della separazione netta tra i due Servizi, che gli pareva sempre eccessiva. Come si fa, diceva, a separare nettamente il contro-spionaggio tra Sisde e Sismi? Dov’è la differenza logica e fattuale? Non è che, quando una minaccia entra nel nostro territorio, è oggetto delle attenzioni del Servizio civile e se è fuori, la stessa minaccia è invece contrastata dal Servizio militare.

Non era d’accordo nemmeno con la totale perdita della tradizione militare dei Servizi e in particolare del Sismi.

Essere militari, sebbene sia allora che oggi entrambi i Servizi siano pieni di personale civile ai più vari livelli, significa qualcosa di ben definito, d’altra parte è lo stile che fa l’uomo, e lo stile di un militare è fatto di dedizione, autonomia decisionale, riserbo, disinteresse.

Tutte caratteristiche che Martini esibiva al massimo grado, e che lo facevano apprezzare da tutti i leader politici di ogni partito.

Ma Fulvio Martini era anche interessato al sistema di rapporti che si sarebbe instaurato con le altre intelligence nel nuovo quadro della unificazione europea, che quando lui era Direttore del Sismi sembrava dietro l’angolo.

Aveva mille dubbi che, sempre nell’ambito dei Servizi, la nuova collaborazione tra le Nazioni sarebbe stata facile, immediata, semplice e senza costi. L’Inno alla Gioia beethoveniano mal si adatta all’intelligence.

Tutela delle fonti, disseminazione, affidabilità reciproca, ma soprattutto un reale interesse comune per determinate operazioni non gli sembravano mai del tutto garantite.

E, in effetti, la realtà attuale gli dà ragione. Se è vero che, oggi, un Servizio (il termine “Agenzia” mi sembra piuttosto stucchevole, da film Usa) si trova ad avere una rete di collegamenti stabili che, prima del 1989, era inimmaginabile, la questione vera è sempre quella, inevitabile, dell’’interesse nazionale, che non è una formuletta, ma sostanza viva di tutte le decisioni politiche e geo-politiche. Anche quelle meno evidenti e di grande rilievo.

E sapeva bene, Fulvio Martini, che tutte le stupidaggini sui Servizi “deviati” erano solo l’invenzione di una certa stampa e, lo diceva anche apertamente, di alcuni settori della Magistratura.

Una delle aree, quest’ultima, più “penetrate” dal nemico, interno ed esterno, che ancor oggi ci siano nella Pubblica amministrazione.

Certo, ci furono e probabilmente ci sono ancora singoli gruppi che, all’interno del Servizio, cercano di fare i propri interessi, o per scopi personali e di basso livello o per motivazioni che si intersecano con interessi di altri Paesi o gruppi di Paesi. Ma parlare della “deviazione” di un intero Servizio, è roba da fantascienza, anche se, oggi, ciò è diventato, gramscianamente, un “luogo comune” di massa e un mantra, ripetuto fino alla noia, proprio da quella classe politica attuale che, oggi, rivendica di poter avere a disposizione il Servizio come se fosse una scorta di quinto livello.

Certo, non si può chiedere che un Servizio riveli le sue Fonti e le sue Deduzioni, come spesso la stampa e la magistratura fanno, visto che da una deduzione si passa facilmente all’altra, e non ci leggono solo i cittadini, ma ci leggono soprattutto, e bene ci decrittano, i Servizi avversari e “collegati”.

Certo, fu una richiesta di Fulvio Martini quella di limitare l’accesso dell’archivio ai soli magistrati forniti di credenziali da parte del governo e del Copasir, senza che qualche Pretore, in cerca di breve fama, si potesse arrogare il diritto di spulciare archivi che non può certo capire.

Tutelare il Servizio da inquisitori allegri e incompetenti, fu una richiesta fortissima di Martini che, finché ci fu Francesco Cossiga, fu esaudita.

E qui arriva di nuovo la questione di “Gladio”, che Fulvio Martini ebbe da gestire come Direttore del Sismi, di cui Stay Behind era una parte, in condominio con la Direzione delle Operazioni Non-Ortodosse della Nato, alla “Cittadella” di Mons-Bergen. Che Fulvio conosceva bene.

Per l’amm. Martini, tutta la questione era brutalmente un “regalo al Pci”, che aveva bisogno di un ricostituente politico nella crisi della Prima Repubblica, che pure lo aveva investito.

Fu la scelta, da parte di alcuni uomini politici, di mantenere un vecchio duopolio del potere quando lo standard della guerra fredda non teneva più, e doveva essere cambiato fin dalle sue radici. Due zoppi che si reggevano ancora l’un l’altro, non il progetto di una nuova stagione politica (e di intelligence) che avrebbe potuto ricostruire il Paese.

Altra balla sacra che Martini non poteva accettare fu la questione della “battaglia aerea” o anche del missile esterno, per quel che riguarda il caso di Ustica.

Tutte le perizie parlano di una bomba interna, e, ricordava sempre Fulvio, il 94% del velivolo è stato recuperato.

Ma la capacità di manipolare per decenni la pubblica opinione è rimasta intatta, qualunque documento inoppugnabile si ponga all’attenzione dei media. È questo, ancora oggi, un gravissimo problema di sicurezza nazionale, che mi sembra si stia addirittura acuendo.

Mi ricordo di quando Martini ci parlò della sua cena con Vladimir Krjuchkov, vecchio capo del Kgb, che gli preannunciò con le dovute attenzioni il “golpe d’agosto” contro Gorbaciov. Non si meravigliò molto, date le notissime resistenze degli apparati sovietici e la galoppante crisi economica, degna degli anni ’30, che si stagliava all’interno dell’Urss.

Ma era molto curioso di quanto accadeva all’Est, e mi ricordo che mi disse di come niente, in quelle aree, può essere facilmente tradotto in termini che diremmo “occidentali”.

Mi venne in mente, quando Martini me lo disse, la meravigliosa scena di La Russie en 1839, di De Custine, dove il diplomatico-scrittore racconta di un nobile che fa fermare la sua carrozza e si mette a frustare il cocchiere.

L’amm. Martini, poi, pensava ad una trasformazione dell’Est in cui una parte della nuova classe di capitalisti di Stato si fondeva con una parte, la più tecnocratica e nazionalista, dei vecchi apparati di potere, ormai felici di togliersi anche la sola etichetta di “comunisti”. Dal comunismo al nazionalismo, questa era la sua chiave di lettura.

Previde, me lo ricordo in una lunga chiacchierata con Cossiga, l’evoluzione del tutto “capitalistica” della Cina, di cui pure aveva ben conosciuto le “Quattro Modernizzazioni”, che sarebbe diventata quella che oggi possiamo facilmente verificare.

Ovvero, una grande potenza nazionale-continentale che usa il capitalismo per la sua strategia globale.

Vedeva “lungo”, l’ammiraglio Fulvio Martini, ed ebbe un carattere da leone, soprattutto quando fu spinto a difendere il Servizio da manipolazioni, interessi, debolezze altrui.

D’altra parte, come diceva De Gaulle, “la grandezza è una strada che porta verso l’ignoto”.


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