L’articolo del generale McMaster comparso sul numero di maggio della rivista The Atlantic ha per un momento fatto credere agli americani di aver finalmente trovato il nuovo “Mr. X”. Come più di settant’anni fa con il famoso telegramma inviato dall’ambasciata di Mosca da George Kennan, poi parzialmente rivisto sotto pseudonimo nell’articolo intitolato “The Sources of the Soviet Conduct”, oggi l’ex consigliere per la sicurezza nazionale ha di fatto contribuito, con uno sguardo storico, ideologico e geopolitico, a inquadrare la visione del mondo del Partito Comunista Cinese. Frutto di un percorso storico che ha visto la commistione tra periodi di estrema fragilità politica interna e di una connaturata confidenza verso il mondo, McMaster ritiene come il PCC, attraverso un rigido controllo autoritario, ambisca a ringiovanire “l’età dell’oro” della storia imperiale cinese (vendicando così il secolo delle umiliazioni) approfittando di una “narrow window of strategic opportunity” per scalzare gli Stati Uniti dalla loro posizione di superpotenza e di garante dell’ordine internazionale.
“La Cina intende stabilire un nuovo sistema tributario attraverso uno sforzo massiccio che si articola sotto tre politiche interdipendenti, quali Made in China 2025, la Belt and Road Iniatiative e la Military-Civil Fusion”, sforzi che rientrano in una strategia di “cooptazione, coercizione e occultamento” che di fatto rilevano la forte convergenza tra economia, (geo)politica e tecnologia operata dal Partito-Stato negli ultimi decenni. Proprio questi sforzi dovrebbero, secondo McMaster, far ricredere quei policymakers americani che avevano creduto all’inevitabile transizione democratica a cui la Cina sarebbe andata incontro una volta avviate e consolidate le politiche di liberalizzazione dei mercati. Un “narcisismo strategico” che, nella visione del generale, dovrebbe far posto ad “un’empatia strategica” per capire “come il mondo appare agli altri, e come queste percezioni, così come le aspirazioni e le emozioni, influenzano le loro politiche ed azioni”. Come Kennan, anche l’ex generale conclude il suo articolo con una serie di prescrizioni e raccomandazioni per la politica estera americana. “Per prima cosa, le qualità dell’Occidente liberale che la Cina vede come una debolezza sono in realtà punti di forza”, come il libero scambio di informazioni e idee, “uno straordinario e motore di innovazione e prosperità”.
Tuttavia, come rileva Francis P. Sempa in una riflessione su The Diplomat, “è qui che McMaster delude le aspettative”. “Kennan nel suo famoso articolo proponeva una strategia di contenimento delle tendenze espansionistiche sovietiche applicando contromisure calibrate alle mosse aggressive dei sovietici in differenti aree geografiche”, mentre per McMaster, prosegue il politologo, “gli Stati Uniti devono competere aggressivamente con la Cina”, il che “è tutt’altra cosa rispetto ad un fermo e vigile contenimento”. Questo soprattutto alla luce del fatto che “l’obiettivo immediato della Cina è di ridurre, se non eliminare, l’influenza americana nella regione Indo-Pacifica”, con tutte le conseguenze che questo comporterebbe dal punto di vista geopolitico.
Se l’analisi di McMaster in questo senso lamenta una proposta strategica più strutturata per la politica estera americana, risulta tuttavia fuorviante poter replicare paradigmi del passato (come quello del “contenimento”) nella realtà multidimensionale e complessa del XXI secolo. Soprattutto alla luce dell’estrema intersezione tra competizione tecnologica e geopolitica. Una realtà in cui la stessa figura del consigliere burocrate difficilmente rifiuta le sirene del settore privato, come accaduto allo stesso McMaster da poco divenuto nuovo membro del consiglio di amministrazione di Zoom, la piattaforma che ha destato non poche preoccupazioni come raccontato da Formiche.net.
Vi è tuttavia chi, come David McCormick, ha provato a colmare questo vuoto. In un recentissimo articolo apparso sulla Texas National Security Review redatto con altri due investitori del colosso d’investimenti, il Ceo di Bridgewater rilancia l’idea che alla base della supremazia americana vi sia “il potere che risiede all’intersezione tra l’economia e la sicurezza nazionale”. Qual dovrebbe essere, dunque, “il piano per preservare il primato americano”? La proposta prevede un’agenda composta da tre policy: 1) innovation; 2) economic statecraft; 3) international coordination. Tutte e tre declinate rispetto ad una serie di assunti che in parte sconfessano l’illusione di un mondo piatto.
Da una parte “l’interdipendenza economica tra gli Stati” indotta dalla globalizzazione ha finito per essere fortemente “sbilanciata”, soprattutto per lo “spostamento geografico dell’economia globale” verso l’Asia-Pacifico. Inoltre, la natura delle tecnologie emergenti pone un duplice rischio a livello economico e di sicurezza, come dimostrato dal 5G che “sembra essere un settore winner-take-all dal momento che il controllo delle infrastrutture equivale al controllo dei dati”, con questi ultimi che rappresentano il motore per ulteriori sviluppi nell’AI e nel quantum computing. Proprio per questo “il vantaggio innovativo americano non può essere dato per scontato e richiederà un impegno nazionale significativo”. Se le regole della competizione economica verranno sempre più dettate nel cyberspazio, diventerà fondamentale vincere la corsa “alla governance di Internet e dei dati” già avviata da Usa, Cina ed Europa.
Proprio per queste trasformazioni, ricordano gli autori, gli Stati Uniti devono “rivedere il tradizionale approccio statunitense all’innovazione” appoggiandosi ad una serie di “principi” cardine che aiutino il governo federale a identificare “settori con strutture winner-take-all”, “investimenti a basso rischio ma a rendimento elevato”, supportare “lo sviluppo di settori in cui le aziende sono fortemente sussidiate da stati concorrenti” e che abbiano “una rilevanza tecnologica strategica”, finanziare “quello che è necessario per guidare il settore privato e il mercato” e infine “ricostruire la relazione triangolare tra settore pubblico, industria privata e università” dal momento che “una maggiore innovazione richiederà un maggior investimento”, anche per quanto riguarda il capitale umano.
Come sottolinea l’articolo, “la capacità di attrarre e trattenere i talenti stranieri è sempre stato un vantaggio competitivo unico degli Stati Uniti – che rimangono una nazione di immigrati – e tale dovrebbe rimanere una priorità”. Che sia un chiaro messaggio a Trump? Sicuramente l’articolo non risparmia lodi verso la politica commerciale dell’attuale amministrazione, la quale “riconoscendo che la competizione geopolitica si impernia intorno al potere e all’influenza economica”, ha rilanciato l’utilità e la necessità di rafforzare una serie di “strumenti di statecraft economico” come il controllo e screening sugli investimenti esteri (il ruolo del CFIUS e dell’Export Control Reform Act), o l’utilizzo mirato delle sanzioni economiche. Sforzi che attuati in concerto con “like-minded partners” rappresentano “risorse uniche per contare e rinnovarsi in quest’era di competizione di grandi potenze”. Infine, una chiosa sulla necessità di riformare l’attuale assetto delle agenzie intergovernative, per cercare di integrare maggiormente con l’attuale establishment di sicurezza nazionale “il decision-making economico”, al fine di “sviluppare politiche e dettare priorità per lo statecraft economico e l’innovazione”.
Affrontare la complessità delle “questioni all’intersezione tra economica, tecnologia e sicurezza” rappresenta un primo importante step per riconoscere la portata della sfida lanciata dalla Cina, e non solo. Se il Ceo del più importante hedge fund del mondo ha riconosciuto questa realtà, è tempo che l’Europa faccia altrettanto e non aspetti il suo “Mr X”.
La strategia per la competizione del XXI secolo è tracciata, con buona pace di McMaster.