Il messaggio di papa Francesco alle pontificie opere missionarie cambia una trama e capovolge un ordito che probabilmente la Chiesa non ha mai avuto, ma che molti ritengono autentico. Il testo è lungo e articolato, bisogna individuare, o scegliere, alcuni punti cruciali. Il primo è evidentemente questo, che lo stesso Francesco pone in apertura: “Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato”. Dunque la Chiesa deve operare per attrazione, non per proselitismo. Non può essere il proselitismo il vettore di una attrazione. Si annuncia il Vangelo per attrarre, in virtù della forza di Cristo e del suo messaggio. “La predilezione amorosa del Signore ci sorprende, e lo stupore, per sua natura, non può essere posseduto né imposto da noi. Non ci si può ‘stupire per forza’. Solo così può fiorire il miracolo della gratuità, del dono gratuito di sé. Anche il fervore missionario non si può mai ottenere in conseguenza di un ragionamento o di un calcolo. Il mettersi ‘in stato di missione’ è un riflesso della gratitudine”. Non ci si può stupire per forza…
Segue il passaggio sull’umiltà. A mio modo di vedere essendo breve va letto integralmente per la sua efficacia e importanza per capire. “Se la verità e la fede, se la felicità e la salvezza non sono un nostro possesso, un traguardo raggiunto per meriti nostri, il Vangelo di Cristo può essere annunciato solo con umiltà. Mai si può pensare di servire la missione della Chiesa esercitando arroganza come singoli e attraverso gli apparati, con la superbia di chi snatura anche il dono dei sacramenti e le parole più autentiche della fede cristiana come un bottino che ci si è meritato. Si può essere umili non per buona educazione, non per voler apparire accattivanti. Si è umili se si segue Cristo, che ai suoi ha detto: ‘Imparate da me, che sono mite e umile di cuore’ (Mt 11,29). Sant’Agostino si chiede come mai, dopo la Risurrezione, Gesù si è fatto vedere solo dai suoi discepoli e non invece da chi lo aveva crocifisso; e risponde che Gesù non voleva dare l’impressione di «sfidare in qualche modo i suoi uccisori. Per lui era infatti più importante insegnare l’umiltà agli amici, piuttosto che rinfacciare la verità ai nemici”. Insegnare l’umiltà, non rinfacciare la verità…
Questa umiltà, spiega Francesco, non può che essere paziente, apprezzare i piccoli passi di ogni uomo. Piccoli passi vuol dire piccoli passi, chiaramente. E quindi Francesco chiarisce che “la Chiesa non è una dogana, e chi in qualsiasi modo partecipa alla missione della Chiesa è chiamato a non aggiungere pesi inutili sulle vite già affaticate delle persone, a non imporre cammini di formazione sofisticati e affannosi per godere di ciò che il Signore dona con facilità. Non mettere ostacoli al desiderio di Gesù, che prega per ognuno di noi e vuole guarire tutti, salvare tutti”.
Questa Chiesa non può che fare memoria di come Gesù incontrasse i suoi apostoli. Li incontrava dove lavoravano, non a convegni. Dunque Chiesa in uscita, nel mondo. Lo stile di Francesco è coinvolgente, o peri depositari di trama e ordito sbagliati forte come l’acqua gelida: “Soprattutto nel tempo in cui viviamo, non si tratta di inventare percorsi di addestramento ‘dedicati’, di creare mondi paralleli, di costruire bolle mediatiche in cui far riecheggiare i propri slogan, le proprie dichiarazioni d’intenti, ridotte a rassicuranti ‘nominalismi dichiarazionisti’. Ho ricordato altre volte, a titolo di esempio, che nella Chiesa c’è chi continua a far riecheggiare con enfasi lo slogan ‘È l’ora dei laici!’, ma intanto l’orologio sembra essersi fermato”. La distanza di Francesco dal clericalismo viene dunque ribadita con nettezza.
Santo, ricorda il papa, è il popolo di Dio, in forza del suo senso della fede. “Il lavoro dello Spirito Santo dota il Popolo dei fedeli di un ‘istinto’ della fede – il sensus fidei– che lo aiuta a non sbagliare quando crede le cose di Dio, anche se non conosce ragionamenti e formule teologiche per definire i doni che sperimenta”.
Ultima bussola da non dimenticare è la predilezione per i poveri, che non può essere ridotta ad un optional. Fu la predilezione di Gesù, è la predilezione fondate la Chiesa.
Per seguire bene tutto ovviamente ci sono delle insidie dalle quale guardarsi, con scrupolo e fatica. Si comincia ovviamente dalla possibilità di diventare autoreferenti, o elitari: di qui “l’idea non detta di appartenere a un’aristocrazia. Una classe superiore di specialisti che cerca di allargare i propri spazi in complicità o in competizione con altre élite ecclesiastiche, e addestra i suoi membri secondo i sistemi e le logiche mondani della militanza o della competenza tecnico-professionale, sempre con l’intento primario di promuovere le proprie prerogative oligarchiche”.
In questo modo si finisce con il ritenersi superiori ai battezzati. Allora magari “si agisce come se la certezza della fede fosse conseguenza di un discorso persuasivo o di metodi di addestramento”.
Cosa può produrre questo approccio errato se non che si moltiplichino “inutili luoghi di elaborazione strategica, per produrre progetti e linee-guida che servono solo come strumenti di autopromozione di chi li inventa. Si prendono i problemi e li si seziona in laboratori intellettuali, dove tutto viene addomesticato, verniciato secondo le chiavi ideologiche di preferenza. Dove tutto, fuori dal contesto reale, può essere cristallizzato in simulacro, anche i riferimenti alla fede o i richiami verbali a Gesù e allo Spirito Santo.” Di qui arriverà la centralità degli uffici efficienti, spia di una Chiesa già morta.
Seguono tante raccomandazioni, tra le quali una mi appare decisiva: “Farà bene una più intensa ‘immersione’ nella vita reale delle persone, così com’è. Fa bene a tutti uscire dal chiuso delle proprie problematiche interne, quando si segue Gesù. Conviene calarsi nelle circostanze e nelle condizioni concrete, anche curando o provando a reintegrare la capillarità dell’azione e dei contatti delle Pontificie Opere Missionarie, nel suo intrecciarsi alla rete ecclesiale (diocesi, parrocchie, comunità, gruppi). Se si privilegia la propria immanenza al Popolo di Dio, con le sue luci e le sue difficoltà, si riesce a sfuggire meglio anche all’insidia dell’astrazione”.
In un commento pubblica poco su La Civiltà Cattolica il direttore padre Antonio Spadaro sottolinea tanti aspetti importanti di questo messaggio. Di queste sottolineature credo importante leggerne due. La prima è questa: “La gioia del Vangelo è l’annuncio della salvezza, che ‘è l’incontro con Gesù, che ci vuole bene e ci perdona, inviandoci lo Spirito che ci consola e ci difende’. La salvezza, dunque, non è conseguenza di una ‘iniziativa missionaria’. Non è neanche la conseguenza sui ‘discorsi sull’incarnazione del Verbo’. Essa ‘avviene’ attraverso lo sguardo dell’incontro con Gesù. L’incontro con uno sguardo che tocca l’anima è godimento, godimento della presenza. E il godimento è radicalmente contrario ai ‘convenevoli imposti dal conformismo ecclesiastico’. Il godimento è frutto dell’attrazione: ‘Cristo si rivela a noi attirandoci’. E, per dare un’immagine di questa attrattiva, Francesco ricorda che sant’Agostino citava il poeta Virgilio, secondo il quale ‘ciascuno è attratto da ciò che gli piace. Gesù non solo convince la nostra volontà, ma attira il nostro piacere’”.
La seconda riguarda il rapporto con la vita ordinaria delle persone. Bello, chiaro, ma in fondo cosa significa in termini di modo di essere? Spadaro risponde citando una frase pronunciata da Francesco rivolgendosi ai vescovi brasiliani: “Serve una Chiesa in grado di far compagnia, di andare al di là del semplice ascolto; una Chiesa che accompagna il cammino mettendosi in cammino con la gente; una Chiesa capace di decifrare la notte contenuta nella fuga di tanti fratelli e sorelle da Gerusalemme; una Chiesa che si renda conto di come le ragioni per le quali c’è gente che si allontana contengono già in sé stesse anche le ragioni per un possibile ritorno, ma è necessario saper leggere il tutto con coraggio. Gesù diede calore al cuore dei discepoli di Emmaus”.