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Cosa c’è e cosa manca al Next generation fund. L’analisi del prof. Pennisi

La presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha presentato oggi al Parlamento europeo (Pe) la proposta dell’esecutivo comunitario in materia di fondi speciali diretti agli Stati più colpiti dalla pandemia. Ha battezzato con un nuovo nome il Recovery Fund proposto da Francia e Germania: Next Generation Eu. La sostanza, tuttavia, non è cambiata.

Il fondo sarebbe di 750 miliardi di euro raccolti con obbligazioni emesse dalla Commissioni e garantiti sempre dalla Commissione medesima sul suo bilancio settennale di 1100 miliardi, non in solido dagli Stati. In breve, non ci sarebbe la mutualizzazione del debito prevista dalle varie versioni di eurobond. Lo stanziamento sarebbe aggiuntivo agli altri strumenti dell’Unione europea: gli interventi sanitari del Meccanismo europeo di stabilità (Mes), il fondo per le emergenze, i fondi strutturali e di coesione a valere sul bilancio settennale, l’azione speciale della Banca centrale europea per l’acquisto di obbligazioni statali (Bce), le misure della Banca europea per gli investimenti (Bei) mirate alle piccole e medie imprese, e quant’altro. Il nuovo fondo verrebbe utilizzato per due terzi per prestiti a tassi e periodi d’ammortamento molto più favorevoli di quelli che i singoli Stati più colpiti dalla pandemia troverebbero rivolgendosi loro stessi ai mercati internazionali e per un terzo per sovvenzioni a fondo perduto.

Gli Stati dovrebbero presentare programmi concreti per avere accesso ai finanziamenti. L’Italia potrebbe avere 82 miliardi a fondo perduto e 91 a prestiti. Ci sarebbe ovviamente condizionalità. Non solo si dovrebbero destinare i finanziamenti ai programmi concordati ma dalle raccomandazioni al nostro Paese pubblicate dalla Commissione la settimana scorsa, l’Italia dovrebbe assicurare: a) politiche di bilancio tali da permettere una ripresa economica a medio termine e la sostenibilità del debito della pubblica amministrazione; b) aumentare gli investimenti pubblici e privati; c) migliorare il coordinamento tra Stato centrale e Regioni; d) rafforzare la sanità; e) sostenere la fasce deboli più colpite dalla crisi; f) mitigare la disoccupazione con politiche attive del lavoro; g) rafforzare istruzione e formazione a distanza tramite strumenti digitali; h) fare giungere liquidità all’economia reale soprattutto alla piccole e medie imprese ed alle imprese innovative; i) porre l’accento su investimenti “verdi” e digitali; e soprattutto l) migliorare l’efficienza del sistema giudiziario e  l’efficacia della pubblica amministrazione. Tutti obiettivi condivisibili e, peraltro, al centro di un’intervista del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, apparsa sul Corriere della Sera del 27 maggio poche ore prima della presentazione di Ursula von der Leyen al Pe.

La presentazione è stata fatta al Pe e non ai leader dei 27 con il chiaro obiettivo di avere il supporto dell’assemblea e fare accettare un fondo più innovativo e di maggiore consistenza di quanto diversi Stati dell’Ue non vorrebbero accettare.

C’è, quindi, tutto quel che ci si aspettava nel Next Generation Eu quale delineato al Pe? Non solamente, la trattativa inizia adesso. È tutt’altro che certo che i quattro Stati “rigoristi” (Austria, Paesi Bassi, Danimarca e Svezia) ed altri (ad esempio Polonia, Ungheria e Repubbliche Baltiche) si faranno convincere a dare la loro approvazione ad uno strumento più consistente e molto più orientato alle sovvenzioni a fondo perduto di quanto avrebbero voluto. È un negoziato in salita che non si chiuderà con il Consiglio dei Capi di Stato e di governo del 18-19 giugno. È difficile prevedere se i finanziamenti arriveranno prima della primavera 2021, nonostante l’uscita dal crisi richieda speditezza.

Il programma è, poi, timido sia dal lato della raccolta dei fondi sia della loro allocazione. Dagli Anni Settanta, la Commissione europea ha collocato più di una dozzina di obbligazioni comunitarie sui mercati privati. I ricavi furono distribuiti a Paesi in crisi: quattro di queste erano dirette ad aiutare l’Italia. Queste obbligazioni sono sempre state completamente rimborsate. Quindi, nella nuova tornata di ricorso al mercato per dare sostegno a Stati membri in difficoltà di innovazione ce ne è ben poca. Tanto più che si tratta di titoli trentennali molto simili a quelli emessi sia da Stati sia da grande imprese. Non c’è neanche lo sforzo di cercare di utilizzare titoli irredimibili quali quelli utilizzati nell’Ottocento ed ora visti da alcuni (ad esempio, Victor Haghani e James White nel lavoro Reviving a 19th Century Perspective on Financial Wellbeing) come uno strumento particolarmente utile per il finanziamento di Stati ad alto debito della pubblica amministrazione. Quattro economisti italiani – Massimo Amato (Bocconi), Everardo Belloni (Politecnico, Milano), Paolo Falbo (Università di Brescia), Lucio Gobbi (Università di Trento) hanno delineato una proposta intelligente da un paio di mesi all’attenzione delle autorità europee; non ce ne è traccia nel Next Generation EU che resta in una lunga tradizione di solidarietà e collaborazione europea.

La condizionalità se non declinata con obiettivi quantitativi specifici direttamente monitorabili, non solo da una parte terza, ma da tutti coloro che seguono (pur solamente dai media) la politica economica, resta una pia illusione all’acqua di rosa. Ma potrà innescare poco utili diatribe sia tra Italia e Ue sia tra varie parti politiche nel Belpaese.

Much Ado for Nothing (Molto rumor per nulla) come diceva Shakespeare.


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