Skip to main content

Non è magistropoli, è proprio un togaparty. L’opinione di Curini

È di pochi giorni fa la pubblicazione di una chat fra magistrati a partire dalle intercettazioni condotte sul cellulare di Luca Palamara (ex capo dell’Associazione Magistrati ed ex membro del Csm – quindi non una figura marginale) in cui, parlando del Decreto Sicurezza voluto fortemente dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, si esprimono dichiarazioni assai forti contro lo stesso. In particolare si sottolinea come Salvini “Ha ragione ma va attaccato” e che “è una m***a”.

Dichiarazioni che inevitabilmente riportano in primo piano un leit-motiv della democrazia italiana, da almeno 30 anni a questa parte. Ovvero il forte coinvolgimento della magistratura italiana (o almeno di una sua parte non trascurabile) nella dinamica politica. Si noti, non stiamo parlando qua di una presa di posizione di questo o di quel magistrato rispetto a questo o a quel provvedimento. Pratica del tutto legittima. Stiamo invece riferendoci allo sfruttare la discrezionalità nell’azione che i magistrati inevitabilmente hanno, per perseguire una chiara e deliberata agenda politica.

È in questo senso, che piuttosto di parlare di novella “Magistropoli”, come ha scritto a riguardo recentemente Piero Sansonetti, ha più senso secondo me parlare di togaparty (magari al plurale – data l’esistenza, sempre alla luce delle intercettazioni di cui sopra, di una serie di correnti di magistrati in aperta lotta tra di loro), proprio per l’esistenza di un obbiettivo politico condiviso da perseguire, la voglia in questo caso di inchiodare questo o quel politico, a scapito del resto.

A chi si sorprende della cosa, suggerirei di leggere e studiare con attenzione quanto riportato qualche anno fa in un brillante articolo scientifico pubblicato sul South European Society and Politics dove si mostra come il Re sia nudo, e già da un pezzo. In quell’articolo i due autori, analizzando una imponente mole di dati lungo 30 anni di storia giudiziaria italiana (dal 1983 al 2013) che copriva un totale di quasi 1.300 richieste di autorizzazione a procedere (limitatamente a reati quali la corruzione o quelli contro la Pubblica amministrazione) nei confronti di quasi 1400 deputati della Camera, mostravano che l’affiliazione politica dei giudici italiani in questa o quella corrente influenza in modo significativo la decisione di perseguire certi partiti più che non altri. In particolare, più l’orientamento politico del magistrato diverge dalle posizioni ideologiche di un partito, più il giudice è incline a procedere contro quel partito (o quel politico). Questo, tra l’altro, appare più evidente quando in una certa procura tende a prevalere la componente di Magistratura Democratica. Ma non solo: sempre questa ricerca mostra che i giudici sono influenzati anche dai conflitti interni tra i partiti in Parlamento. Una politicizzazione della magistratura in piena regola, che è ancor più pericolosa, nelle sue conseguenze, in presenza della sua sostanziale e completa autonomia come avviene nel caso italiano.

In tutto questo, ovviamente, non manca mai chi si compiace perché dei magistrati complottano per colpire un politico, solo perché quel politico sta antipatico. Mostrando con ciò due ordini di problemi: normativi, perché fa capire quanto stia poco a cuore la democrazia per taluni, ridotta ad un conflitto tra tribù, dove l’unica cosa che conta è se la tribù opposta perde, a scapito di tutto il resto. Ma anche strategici: perché se si avallano (direttamente o indirettamente) certi comportamenti, poi devi aspettarti che un giorno possa toccare anche alla propria di tribù.

Spiace allora che un giornalista serio come Molinari, neo-direttore di Repubblica, derubrichi l’intera faccenda a dettaglio “perché agli italiani ora sta solo a cuore l’urgenza della situazione economica”. Parafrasando Ernest Hemingway, non chiedere per chi suona la campana (a lutto) di una democrazia liberale. Suona (anche) per te…


×

Iscriviti alla newsletter