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La politica non freni la produzione di ricchezza. L’appello di Sapelli

La crisi economica e quindi sociale che ci ha già investiti e che ancor più ci investirà nei prossimi mesi sarà assai più devastante di quelle, pur gravi, che la storia d’Italia ha in precedenza vissuto. Questa ha infatti tutte le caratteristiche per radere al suolo l’apparato produttivo, in una dimensione che potrebbe essere equiparata solo a quella della seconda guerra mondiale. Con la conseguenza di riportare l’Italia indietro di decenni, di farla regredire e di collocarla in una posizione del tutto marginale nello scenario europeo, accanto a paesi come Grecia, Romania, Bulgaria. Verrebbe così vanificato il lavoro e lo sforzo di generazioni e generazioni che, dal disastro della Seconda guerra mondiale, avevano portato l’Italia ad essere, negli anni Ottanta, prima dell’adesione a Maastricht, nel G7 e a porsi come terza economia europea. Il declino, cominciato negli anni Novanta per cause più politiche che economiche, si tramuterebbe nella morte della nazione.

Per questa ragione oggi difendere i produttori di ricchezza, gli imprenditori, i commercianti, le partite Iva, i lavoratori autonomi ma anche i dipendenti delle imprese, è un’opera di resistenza e di riscatto nazionale che riguarda tutto il Paese. Crediamo che il disastro possa essere evitato solo mettendo al centro della missione il tema della produzione e della innovazione tecnologica: tutta la nazione dovrebbe impegnarsi in un titanico sforzo per consentire ai produttori di creare ricchezza.

Il futuro dell’Italia passa infatti dalla tutela dei produttori, è quindi problema economico come problema di produzione. Per questo la politica dovrebbe porsi come prima obiettivo quello di eliminare ogni tipo di vincolo che la freni. Nessuna deriva assistenzialistica, che si tramuterebbe in parassitismo, ma totale sostegno alla produzione.

Per la prima volta nella Storia, infatti, per un certo numero di settimane, la gran parte delle filiere produttive del Paese si è bloccata, cosi come quella delle reti globali da cui le imprese italiane traggono linfa. Un fatto mai avvenuto, neanche durante la guerre, quando le filiere produttive non solo non si fermavano ma venivano addirittura potenziate in direzione bellica – cosa che favoriva, dopo la fine della guerra, un quasi immediato ripresa.

Oggi invece le previsioni di rapida ripresa sono considerate, anche dai più ottimisti, assai flebili. V’è un altro elemento che aggrava la situazione: in passato le crisi economiche erano prodotte dall’andamento dei mercati e dalla produzione, ora la crisi scaturisce da una decisione politica, quella dei governi di bloccare la produzione. Un altro evento mai avvenuto, almeno nelle economie regolate dal libero mercato e dalla libera impresa.

Siccome è stato il governo a imporre la chiusura, è il governo che se ne dovrà fare carico: tuttavia il modo in cui ciò oggi avviene, con il cosiddetto decreto Rilancio, ci appare non solo insufficiente, ma sbagliato e persino pericoloso
A quasi due mesi dalla chiusura di tutte le attività commerciali, di buona parte di quelle professionali e di molte industriali, si può ritenere infatti che il governo abbia fatto ben poco, soprattutto se lo confrontiamo con la politica di helicopter money di Trump ma anche con quella di Merkel e di Macron. Pesano certamente i fattori della pachidermica ed inefficiente burocrazia, della incapacità politica e delle divisioni interne all’esecutivo, ma a nostro avviso i fattori frenanti sono di due ordini, uno strutturale e l’altro culturale.

Quello strutturale deriva dal debito pubblico e dall’adesione a visioni subalterne che hanno finora impedito di prendere in considerazione soluzioni diverse da quelle impostate, o meglio imposte, da Bruxelles. La ragione culturale riguarda la mentalità anti impresa e in genere ostile al mondo della produzione e del commercio che i due principali partiti della maggioranza condividono. In tal senso, colpiscono il disinteresse e la relativa mancanza di provvedimenti per un settore strategico per il nostro Paese come il turismo.

Se infatti nel Pd è ritornato a farsi forte una cultura di stampo socialista, diffidente nei confronti della libera impresa, tentata dalle sirene dello Stato imprenditore e persino da dirigismi desiderosi di mettere le mani sulle imprese private in cambio di sovvenzioni, nei 5 Stelle è invece marcato un elemento assistenzialistico, di stampo sudamericano e in particolare venezuelano, fondato sulla idea della nazionalizzazioni di molte imprese e sul reddito di cittadinanza da estendere a una quota sempre più ampia della popolazione.

Emerge il profilo, dunque, di un governo che pensa di risolvere la crisi non rafforzando la produzione ma con la distribuzione di sussidi a fondo perduto, poco destinati alle attività produttiva, volti solamente a contenere la lunghezza delle file davanti alle mense della Caritas. Il ritardo nelle aperture delle fabbriche, le minacce traversali, provenienti anche da ministri, di controlli vessatori nei loro confronti, sono poi legati alla base elettorale di entrambi i partiti: un ceto essenzialmente parassitario, che sopravvive grazie al reddito di cittadinanza e alla economia informale, e poi un impiego pubblico ultra garantito.

Più che uno Stato innovatore a noi sembra che il governo voglia costruire uno Stato servile fondato su una mentalità paternalistica e pauperistica in cui i percettori di sudditi, redditi, sovvenzioni diventerebbero dipendenti a tutti gli effetti dai politici, che attraverso la burocrazia controllerebbe i loro movimenti. Il carattere spesso vessatorio in cui il lockdown è stato messo in pratica (alla cinese) fa il paio così con le concezioni economiche del governo: chi non crede alla libertà di produrre non si fida dei cittadini e li fa inseguire sulle spiagge dalle forze dell’ordine.

V’è poi un terzo fattore che riguarda l’interesse nazionale. La classe politica che sostiene l’esecutivo è infatti assai poco interessata, al di là delle dichiarazioni di rito, alla Italia e alla nazione: un ceto spesso legato a gruppi di interesse di altri Paesi, che forse non vedrebbe male l’acquisizione di imprese in crisi da parte di gruppi stranieri oppure la sostituzione della fitta e vita rete del commercio con le grandi catene internazionali di commercio. La lentezza e la cecità dell’esecutivo fanno pensare che vi sia del metodo in questa follia.

Rispetto a questo disegno noi vogliamo un cambio di mentalità radicale. La nostra critica al governo e alle forze politiche di maggioranza non riguarda solo le misure di dettaglio ma tutto l’impianto ideologico – anche perché le prime sono spesso figlie del secondo. E vogliamo sostenere che il ruolo della impresa, del commercio, delle professioni, degli operai, insomma dei produttori di ricchezza è una missione nazionale. La crisi ha distrutto il vecchio mondo della globalizzazione. Ci si para di fronte un mondo nuovo, in cui l’interesse della nazione torna ad essere il principale valore che una comunità deve perseguire. La nazione, l’Italia è forte. Ma lo Stato è debole. E noi dobbiamo renderlo efficace, ma snello. Quindi si all’interesse nazionale, no allo statalismo.

Lo Stato recuperi in toto le funzioni di protezione dei cittadini, dei confini, dei settori e delle industrie strategiche, delle reti di dati e di comunicazione e delle infrastrutture. Ma lo Stato non dovrà occuparsi di compiti che altri istituzioni stanno meglio compiere, secondo il principio della sussidiarietà. Lo Stato guardiano sì, lo Stato imprenditore no. Le forze vive della società italiana vanno liberate e va loro consentito di agire.

Per questo, come dopo la seconda guerra mondiale, occorrerà mettere capo ad una riforma di sistema che ridisegni i rapporti fra i poteri, snellisca l’amministrazione, ripensi la fiscalità e la giustizia. In mancanza di un intervento del genere, non potrà esserci nemmeno una ripresa dell’attività produttiva e un rilancio della nostra economia.

Per far ripartire la produzione, l’Italia deve affrontare la questione del debito pubblico le cui dimensioni, destinate a crescere in misura considerevole, ci rendono oltremodo fragili e dipendenti da interessi e volontà altrui. Emissioni a lunga scadenza, esenti da imposte e destinate in primo luogo ai cittadini italiani (ma aperte anche a fondi esteri, soprattutto di Paesi amici), appaiono uno strumento utile a questo scopo. Una tale operazione, se di successo, consentirebbe di svincolarsi da condizioni politiche che avrebbero come esito ulteriori cessioni di sovranità.

Difendere l’interesse nazionale equivale a difendere i produttori e difendere i produttori significa difendere l’interesse nazionale. Per questo il piano economico non è separabile da quello strategico. Il conflitto tra Stati Uniti e Cina per la supremazia mondiale non è un fatto congiunturale, ma è destinato a durare per molto tempo e influenzerà decisioni e posizionamenti dei maggiori Stati. L’Italia, come gli altri Paesi europei, non può rimanere indifferente o peggio scivolare verso la Cina, come talvolta sembra stia facendo: noi invece diciamo, come ha fatto di recente il segretario alla Difesa americano, che l’Italia deve collocarsi in un rinnovato asse atlantico imperniato su Stati Uniti e Regno Unito.

Le scelte di fondo sul debito e la collocazione internazionale formano la cornice strategica in cui si inseriscono interventi d’urgenza per attenuare gli effetti, particolarmente gravi in situazione d’emergenza, che derivano dai malanni di cui l’Italia re da tempo: una bulimia legislativa spesso fatta di norme confuse che portano a sovrapporre competenze e poteri; una giustizia invasiva che non effettua ex post il controllo di legalità ma mette paletti ab initio e scoraggia attività d’impresa e investimenti; la mancanza di infrastrutture e manutenzione della proprietà pubblica; una tassazione abnorme e di rapina.

Interventi d’urgenza configurano una specie di Stato di eccezione nell’ambito della produzione. In primo luogo occorre ripensare, riducendone il peso, il sistema fiscale che grava sul capitale e sul lavoro. Diventa quindi essenziale evitare ogni tipo di patrimoniale, che, essendo forzosa, creerebbe un clima di sfiducia favorendo la fuga dei capitali. In secondo luogo va disboscato il coacervo degli “infiniti” adempimenti in materia di lavoro, di ogni vincolo legislativo o amministrativo, delle lungaggini procedurali. Pensiamo a misure straordinarie come la sospensione, nel periodo di ricostruzione, del Codice degli Appalti e del Codice del Consumo. In questo quadro va ripensato il reato di abuso d’ufficio per snellire autorizzazioni e avvii lavori.

In terzo luogo occorrono azioni mirate per preservare la liquidità dei produttori, attuare un piano di investimenti infrastrutturali finanziato dalla BCE, destinare risorse a tutela delle piccole imprese, dell’economia locale e del made in Italy. Sono tutte leve da azionare senza indugio per imprimere l’impulso che alla nazione serve per risollevarsi dalla crisi.

All’austerità servirà contrapporre politiche fiscali espansive, che commisurino il gettito alla qualità dei servizi erogati, che osteggino l’ingiustizia sociale che posiziona la cavillosa burocrazia, dell’amministrazione pubblica al di sopra del contribuente anche laddove questo vanti un credito. Soltanto così si potrà cogliere l’opportunità di consentire ai cittadini di risollevarsi dalle asperità e rinvigorire la propria capacità di prestarsi al sostenimento del Paese.

L’innovazione tecnologica ed il rapporto fra Università ed Enti di Ricerca e mondo della produzione è un altro grande tema che dovrà essere affrontato in maniera decisa. L’Italia vanta Università di buon e talora ottimo livello sia per gli aspetti formativi sia per la ricerca scientifica. Vanno incentivate, in particolare modo, le discipline scientifico-tecnologiche che rappresentano un asset strategico per un Paese avanzato che voglia affrontare le sfide del futuro e vanno messi a sistema le potenzialità innovative delle Università pubbliche italiane e degli Enti di ricerca con le esigenze del mondo della produzione, soprattutto per quanto riguarda le piccole e medie imprese. Va meglio protetta ed accompagnata la proprietà intellettuale, poiché l’ingegno e l’inventiva rappresentano materie prime che certo non fanno difetto nel nostro Paese.

I FIRMATARI

Giulio Sapelli
Gaetano Cavalieri (imprenditore del lusso e presidente della CBJO, confederazione mondiale dell’oro)
Marco Gervasoni (ordinario di Storia contemporanea ed editorialista de Il Giornale)
Corrado Ocone (filosofo, saggista)
Antonio Pilati (ex membro del consiglio Agcom e cda Rai, saggista)
Aurelio Tommasetti (ex rettore Università di Salerno)
Giorgio Zauli (rettore Università di Ferrara)


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