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Chi fa il rating alle agenzie di rating? Il quesito del prof. Pennisi

L’8 maggio l’Italia della finanza (e della politica) è stata con il fiato sospeso in attesa che Moody’s Investors Service annunciasse il rating (ossia la valutazione) dei nostri titoli d Stato. In serata, a mercati chiusi, l’agenzia ha comunicato di avere cambiato il calendario; quindi, se ne riparlerà a giugno o a luglio. Il rating resta Baa3, ossia una tacca sopra il livello “spazzatura”, in inglese junk. È stato tirato un sospiro di sollievo. Verosimilmente, però, Moody’s voleva attendere di conoscere i contenuti del decretone Rilancio di cui i suoi analisti avrebbero studiato gli effetti.

Quasi nessuno, con l’eccezione di pochi siti finanziari, si è accorto che il 19 maggio Moody’s ha diramato ai propri abbonati un rapporto sui corporate bond emessi dalle maggiori aziende italiane che può anticipare, per molti aspetti, la valutazione dei titoli di Stato. Il documento la canta e la suona in termini molto espliciti. In breve, secondo l’agenzia, la qualità del debito delle spa italiane continuerà a peggiorare nei prossimi 12-18 mesi a causa degli effetti pesanti della pandemia da coronavirus. Le determinanti che stanno causando un ulteriore deterioramento della qualità delle esposizioni societarie sono una combinazione fra l’epidemia che ha aggravato una crescita già debole e misure di lockdown più rigorose e lunghe in Italia rispetto a quelle di molti altri Paesi europei.

“Il rischio di un’ulteriore erosione della qualità del debito è più elevato per i settori maggiormente esposti al coronavirus come i beni di consumo durevoli, i giochi, i trasporti, i produttori di automobili e gli ambiti legati alle forniture automobilistiche”, ha scritto Paolo Leschiutta, senior vice president di Moody’s Investor Service.

Il documento esamina la qualità del credito di 53 spa tra cui 18 aziende di servizi pubblici e infrastrutture. In Italia, ricorda Moody’s, il 64% delle aziende sotto osservazione sono di tipo non Investment Grade (detto anche junk), che aumentano al 91% se si escludono le infrastrutture e le aziende attive nei servizi. Sono imprese, che operano soprattutto nei beni di consumo durevoli, nei giochi, nei trasporti, nell’industria automobilistica e nelle forniture di autoveicoli costituiscono una grande percentuale di rating con prospettive negative o che sono in fase di revisione per il downgrade. Alla fine dello scorso aprile, circa il 30% ovvero 10 delle 35 società non finanziarie (escluse le infrastrutture e le società di servizi pubblici) che Moody’s valuta in Italia avevano un rating B3 (per l’agenzia equivale ad un alto rischio di insolvenza) è anche inferiore, in aumento del 67% rispetto a dicembre 2019.

Questo quadro sconsolante anticipa un giudizio negativo sui titoli del nostro debito pubblico, che – come si è detto – sono solo una tacca sopra il livello junk? Non è necessariamente detto. Uno studio recente di Edward Altman della New York University esamina la tendenza di Moody’s a mantenere a lungo il Baa3, ossia di evitare di traversare un vero e proprio Rubicone finanziario, in parte perché l’agenzia ci pensa varie volte prima di emettere un verdetto che potrebbe provocare un vero sconquasso ed in parte per incentivare il Paese (quando si tratta di titoli di Stato) a rimettersi in ordine. Sul rating prossimo venturo incideranno senza dubbio le conclusioni del Consiglio europeo del 18-19 maggio ed il programma di aiuti del resto dell’Unione europea all’Italia. È un’importante determinante politica con vaste implicazioni finanziarie. Senza dubbio, un governo i cui titoli venissero classificati junk avrebbe serie difficoltà a sorridere di fronte a televisioni ed a restare saldamente in sella.

Ciò non solo spiega la cautela prima d’affibbiare un giudizio chiaramente negativo (una decina di anni fa il governo francese reagì ad un rating battendo i pugni sul tavolo) ma anche pone una domanda: chi fa il rating delle agenzie di rating? Ossia, chi le esamina e dà loro un voto?

È una questione che ci si pone da anni e che viene discussa soprattutto in sede Ocse. Anche perché nonostante la nascita di tante nuove agenzie negli ultimi dieci anni, si ha a che fare con un mercato poco competitivo. Le tre principali – Moody’s, Standard & Poor e Fitch – coprono il 95% del fatturato (ed hanno macinato utili da favola nel primo trimestre 2020 quando, scoppiata la pandemia, investitori e banche valevano le obbligazioni che finivano nei loro conti).

Varrebbe la pena riprendere il tema in sede Ue, anche e soprattutto formulando proposte concrete, sino ad ora latitanti.

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