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Recovery fund? Purché l’Italia non perda il pin per il grande bancomat europeo

Di Manlio Pisu
cancro

Potrebbe rivelarsi, per l’Italia, poco più di un magro spuntino la grande abbuffata dei fondi europei che a breve si riverseranno a pioggia sulle praterie bruciate dal coronavirus nel tentativo di scongiurare il flagello della desertificazione economica. Non perché l’Europa sia stata matrigna verso il Belpaese. Al contrario. L’Unione europea ha dimostrato di saper battere un colpo. Il vertice dei capi di Stato e di governo di fine aprile ha messo in campo, infatti, un arsenale senza precedenti per soccorrere l’Italia e i Paesi risultati più vulnerabili alla pandemia.

Sono cifre da capogiro quelle messe insieme attraverso i vari strumenti attivati: le risorse del Mes, il “fondo salva-Stati”, che a nel dibattito domestico ha sollevato onde altissime di polemiche; quelle della Bei e quelle del bilancio Ue attraverso il programma Sure. A questo si aggiunge lo strumento dei recovery bond, le emissioni di debito comune targate Ue, che nei prossimi mesi dovrebbero servire a raccogliere sui mercati dei capitali ulteriori risorse finanziarie da impiegare nella ripresa post-Covid19.

Per quanto i contorni di questo progetto siano ancora da definire, il solo fatto che i recovery bond siano stati inclusi tra gli strumenti ammessi dalla Ue costituisce un indubbio successo diplomatico per l’Italia, che al tavolo dei Ventisette si è battuta con determinazione per introdurli. Il punto è che al banchetto per la grande spartizione della torta l’Italia rischia di presentarsi ancora una volta impreparata. Quel giorno fra i commensali intorno al tavolo riuscirà a prendere di più chi avrà braccia e testa per prelevare. E l’Italia ha dimostrato nel corso dei decenni di essere un pessimo prelevatore.

La macchina amministrativa dello Stato – in tutte le sue articolazioni, centrali e periferiche – riesce storicamente ad attingere dai bacini Ue solo in piccola parte. Il grosso dei soldi a nostra disposizione resta a languire in fondo al serbatoio, semplicemente perché nessuno si cura di prenderli. È come se non riuscissimo a digitare il pin, il codice di accesso al grande bancomat europeo, con il risultato di lasciare i soldi inutilizzati sul conto corrente.

La questione è vecchia. Chi ha memoria lunga ricorderà che nel 1996 Carlo Azeglio Ciampi, all’epoca ministro del Tesoro nel primo governo Prodi, veniva garbatamente “strigliato” da Monika Wulf Mathies, eurocommissaria per le politiche regionali, perché l’Italia prelevava solo il 14% dei fondi europei di coesione, cioè i soldi destinati a ridurre il divario economico tra aree sviluppate e aree depresse (come il nostro Sud) all’interno della Ue.

L’invito della Wulf Mathies era a prelevare di più, perché altrimenti l’Italia, con il suo comportamento, avrebbe lasciato intendere di non aver bisogno di quei soldi. Pertanto – con l’imminente allargamento della Ue verso Est – quelle risorse sarebbero state dirottate, come poi è successo, verso i Paesi entranti dell’Europa centro-orientale, che – a differenza di noi – hanno saputo mettere a frutto fino all’ultimo centesimo i soldi prelevati a Bruxelles.

A distanza di quasi un quarto di secolo poco è cambiato rispetto al 1996. All’inizio di quest’anno la Corte dei Conti ha laconicamente constatato che la capacità di prelievo e di impiego delle risorse comunitarie per la riduzione dei divari economici infra-Ue resta per l’Italia modesta, in particolare per le Regioni del Sud, che più ne avrebbero bisogno.

Fin qui l’aspetto quantitativo. C’è poi – non meno importante – l’aspetto qualitativo, cioè la capacità di impiegare in modo efficiente le risorse ottenute, per ottimizzarne i benefici. Anche su questo il track record dell’Italia lascia a desiderare.

Nelle settimane scorse David Sassoli, presidente dell’Europarlamento, ha sollecitato l’Italia a farsi trovare pronta a prelevare e a spendere in modo efficace i tanti soldi in arrivo. “I Paesi – ha detto Sassoli in un’intervista a La Repubblica – devono attrezzarsi per essere capaci di spendere”. “Oggi – ha aggiunto, riferendosi anche all’Italia – ci sono Paesi che non sono in grado di farlo e che rimandano i soldi indietro”. “L’Italia deve prepararsi, pianificando la spesa. Anche con aggiustamenti, rivedendo, correggendo o razionalizzando le procedure, il codice degli appalti, i meccanismi burocratici che impediscono o rallentano l’accesso alle risorse europee”.

Su posizioni analoghe Carlo Messina, amministratore delegato di Intesa San Paolo, una delle due principali banche in Italia, che punta l’indice contro l’inefficienza del sistema-Paese, incapace di spendere i soldi già stanziati. “Ci sono 150 miliardi di fondi pubblici già contabilizzati per interventi sulle infrastrutture e nell’edilizia, ma prigionieri della burocrazia”, ha dichiarato a IlSole24Ore.

Prima ancora che un problema di soldi c’è un problema serissimo di efficienza della macchina amministrativa, come ci ricordano di continuo le cronache quotidiane di sprechi, di soldi stanziati e non spesi o addirittura mai prelevati.

L’Italia ha battuto i pugni sul tavolo del negoziato europeo per gli eurobond, impuntandosi contro il Mes. Ha ottenuto un impegno sui recovery bond. Ma se il nostro Paese si presenterà all’appuntamento della spartizione della torta, portando con sé una macchina amministrativa sgangherata e inefficiente, gli sforzi potrebbero rivelarsi vani. Agli italiani arriverebbe ben poco di quella torta. E per giunta quel poco rischierebbe di finire nelle tasche sbagliate, quelle delle cosche criminali, che – come ha avvertito più volte lo stesso ministro degli Interni, Luciana Lamorgese – sono pronte, loro sì, ad allungare le mani per intercettare i flussi di denaro pubblico sotto qualsiasi forma.

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