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Scenari di guerra biologica. Cosa ci ha insegnato il virus secondo Crippa (Cesi)

Di Paolo Crippa

Non ci troviamo nel mezzo di una guerra biologica. Al netto di molti dubbi, non ultimi quelli espressi dall’intelligence americana, gran parte della comunità scientifica internazionale concorda sull’origine naturale del Coronavirus. Nonostante ciò, con la diffusione su scala globale del patogeno Covid-19, i cittadini di tutto il mondo stanno sperimentando, ignari all’interno delle loro abitazioni, gli effetti delle misure di contenimento che potrebbero essere disposte dai propri governi nella remota eventualità di un attacco biologico.

Le armi biologiche, che prevedono la diffusione di un patogeno vivente (quale un virus o un parassita), o di una tossina prodotta da un altro organismo, rientrano nella definizione di “armi di distruzione di massa”, al pari di quelle radiologiche, chimiche e nucleari. La mortalità, l’imprevedibilità e l’ampiezza degli effetti rende assolutamente controverso il loro utilizzo. Possono essere classificate in base ai criteri di letalità e infettività. Alcuni patogeni possono avere un’elevatissima letalità, ma al contempo una diffusione estremamente problematica e circoscritta, come nel caso dell’antrace o della ricina.

Tali sostanze si rivelano particolarmente adatte per compiere atti di intimidazione o uccisioni mirate. Nel 2001, a poche settimane dall’11 settembre, gli Stati Uniti furono scossi dalla notizia del recapito di diverse buste contenenti antrace a diversi media di Washington, nonché nell’ufficio dell’allora leader di maggioranza al Senato Tom Daschle. In tale attacco, ricondotto ai suprematisti bianchi, morirono cinque persone e molte altre furono ricoverate in gravi condizioni. Altre sostanze, al contrario, possono essere caratterizzate da un’elevata infettività, ma da una letalità molto bassa, inferiore al 10%. Queste ultime possono rispondere a scopi terroristici più ampi, paralizzando intere società e diffondendo il panico.

Un ulteriore fattore di classificazione è il tempo di incubazione. In un contesto prettamente militare, un’incubazione molto breve consente di agire con rapidità e massimizzare i danni. Al contrario, un’incubazione più lenta può rispondere meglio alle esigenze di gruppi terroristici, consentendo all’autore di celare le proprie tracce e di compiere un’azione di diffusione il più ampia e capillare possibile, prima che le autorità possano accorgersene e mettere in campo strategie di contrasto.

Tutti stiamo vivendo sulla nostra pelle l’impatto devastante di un’epidemia su società tecnologiche e iper-connesse come le nostre. Viene dunque da chiedersi perché tali armi non siano oggi più utilizzate. Le ragioni variano in base se, all’origine dell’attacco, ci siano attori statuali o non-statuali. Per quanto riguarda i primi, durante la Guerra Fredda si è andati incontro ad un progressivo impegno internazionale per la dismissione delle armi biologiche. Nel 1969, l’annuncio del presidente Nixon di voler smantellare le proprie capacità di ricerca, produzione e stoccaggio di armi biologiche aveva dato vita ad una intensa discussione che aveva infine portato, nel 1972, alla firma della Convenzione per le armi biologiche, sottoscritto negli anni da 179 Paesi.

Tuttavia, è opinione comune che tutte le principali potenze militari del mondo ancora oggi continuino a preservare in segreto tali capacità belliche. Nel 1979, ad esempio, l’incidente di Sverdlovsk, nel quale numerosi abitanti della cittadina furono intossicati da antrace, portò i riflettori sui laboratori di guerra biologica tenuti gelosamente nascosti dai sovietici. Nel 2002, Carl W. Ford, assistente Segretario di Stato per l’intelligence, testimoniando davanti al Congresso, affermò che ci sono evidenze che testimoniano come la Russia non abbia mai dismesso tali tecnologie.

Ad oggi, per quanto dibattuto, non è da escludere che Paesi come la Cina, ma soprattutto Iran e Corea del Nord, che legano la propria sopravvivenza sullo scacchiere geopolitico internazionale a forti capacità di deterrenza, continuino a produrre e conservare armi biologiche. Nonostante l’esistenza, le motivazioni che ne rendono improbabile un utilizzo risiedono oggi non solo nella pericolosità nel gestirle e nella eccessiva letalità, ma piuttosto in un importante fattore psicologico. L’uso di tali sostanze è considerato universalmente un tabù, dal momento che si muove, al pari delle armi nucleari, contro l’interesse dell’umanità intera. Nessuno Stato oggi si arrischierebbe, al netto delle proprie giustificazioni, ad utilizzare armi biologiche per fini militari. Un monito su tutti: il semplice sospetto della presenza di un arsenale chimico-batteriologico nelle mani di Saddam Hussein, è bastato a garantire ampio supporto internazionale all’invasione dell’Iraq nel 2003.

Tutt’altro discorso si applica agli attori informali. Scevre da remore di natura etica, alcune organizzazioni terroristiche potrebbero trovare le necessarie spinte ideologiche per utilizzare i patogeni, le stesse alla base dell’attacco alle Torri Gemelle o delle atrocità commesse da Daesh durante il proprio periodo di espansione territoriale. Nonostante la volontà, in questo caso subentrano ostacoli di natura logistica. Risulta infatti estremamente difficile, per entità così poco strutturate, reperire e mantenere tecnologie e competenze scientifiche così rare e sofisticate.

Fino ad ora, tutti questi fattori, assieme all’operato delle agenzie di sicurezza e intelligence di tutto il mondo, hanno agito da efficaci katéchon, limitando i rischi. Nonostante episodi isolati, non si sono registrati casi significativi di guerra biologica o bio-terrorismo nella storia recente. Tuttavia, alla luce dell’attuale pandemia, è opportuno aggiungere alcuni elementi a questa riflessione. L’epidemia di Covid-19 è stato un importante benchmark, che ha consentito agli osservatori internazionali, di qualunque estrazione, di valutare la risposta dei singoli Stati all’emergenza, facendo emergere forti vulnerabilità sistemiche. Inoltre, tra gruppi informali limitati a livello capacitivo e Stati nazionali spaventati dai tabù, a costituire nuove e insidiose minacce sono le aree grigie tra i due.

Negli ultimi anni, infatti, abbiamo più volte assistito alle azioni illecite di gruppi informali, ben mimetizzati, che agiscono da “proxy” per conto di note potenze militari, rendendo opaco e problematico il legame con il proprio committente. Se uno dei grandi freni all’utilizzo di armi biologiche è ancora oggi l’attribuzione dell’attacco e le sue conseguenze morali, quali scenari possono aprire questi nuovi protagonisti della guerra ibrida? Inoltre, nei conflitti contemporanei e all’interno delle attuali frizioni tra grandi Stati, il concetto di distruzione totale è ampiamente superato. Oggi risulta più che mai fondamentale indebolire e paralizzare l’avversario nel medio-lungo termine, agendo possibilmente sottotraccia. Attori geopolitici particolarmente oculati non avranno più bisogno di diffondere patogeni letali, come ad esempio l’ebola, dal momento che gli effetti devastanti di un virus, apparentemente ritenuto “poco più grave di un’influenza”, sull’economia e sull’intera società, sono ogni giorno sotto i nostri occhi.

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