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Se lo smart working non è smart. Parla Bentivogli (Fim Cisl)

Di Marco Bentivogli

Negli ultimi 13mila anni, malattie e guerre sono state catalizzatori dei principali processi di innovazione della storia. L’emergenza dovuta alla pandemia non fa eccezione e ci sta insegnando moltissimo, soprattutto sul nostro modo di vivere il lavoro e cioè che alcune realtà sono ferme a cinquant’anni fa, talvolta prigioniere di una mentalità tecnofoba all’italiana, figlia del mantra “si è sempre fatto così”.

Ma la storia non è un processo lineare, si nutre di discontinuità, esperienze collettive dolorose che lasciano tracce profonde una volta superate. Chi resta, chi sopravvive abita il mondo in modo differente da quanto aveva fatto in passato, sviluppando nuove prospettive e punti di vista. Nonostante negli ultimi anni abbiamo spesso esortato le aziende a innovare in questa direzione le modalità di organizzazione del lavoro, l’emergenza ha colto tutti di sorpresa, salvo rare e virtuose eccezioni.

Prima dell’attuale emergenza sanitaria avevamo avuto un assaggio degli effetti positivi dello smart working, in ABB e Leonardo a seguito della tragedia del ponte Morandi, occasione in cui è stato riscontrato un miglioramento della produttività e del benessere dei lavoratori. Quella che stiamo vivendo è una sperimentazione su larga scala di una specie particolare di smart working fai da te. Si tratta di una situazione forzata, una condizione imposta dalla pandemia da coronavirus.

Prima di tutto, il lavoro intelligente non ha nulla a che fare né con il telelavoro né con il lavoro d’ufficio svolto da remoto. Lo smart working va contrattualizzato ed è il frutto di un processo di partecipazione, dal basso, guidato non da bisogni di sicurezza e sopravvivenza, ma dalla necessità di cambiamento e benessere del lavoratore. Con Franco Amicucci e Raoul Nacamulli abbiamo elaborato un Manifesto per lo smart working pubblicato a marzo su Il Sole 24 Ore, dove abbiamo formulato proposte concrete per utilizzare questa emergenza come opportunità di “scongelamento” delle mentalità e delle abitudini esistenti.

Ma lo scongelamento da solo non è sufficiente a gettare le basi per una trasformazione organizzativa i cui effetti durino nel tempo. Per fare in modo che ciò accada bisogna tener conto della natura del lavoro agile, una modalità emergente di organizzazione del lavoro fondata sul principio di responsabilizzazione delle persone e dei gruppi, su processi di open leadership, sull’engagement e sulla collaborazione.

Le opportunità offerte dallo sviluppo delle Ict hanno reso possibile lo smart working ma per arrivare a forme realmente democratiche di organizzazione del lavoro bisogna porre al centro le persone, valorizzarne il potenziale di autonomia e di sviluppo. Ovvio che elemento essenziale a questa rivoluzione è una cultura dinamica fondata su collaborazione, fiducia reciproca e senso di scopo.

Che fare allora? Per attuare il vero smart working e non quello fai da te, è essenziale potenziare infrastrutture e piattaforme digitali ma prima bisogna agire su un cambiamento culturale, investire cioè su una cultura della responsabilità e dell’autonomia e su sistemi organizzativi evoluti fondati sulla definizione degli obiettivi, sulla comunicazione e sul miglioramento continuo.

L’attuazione del lavoro agile su larga scala implica la gestione di un cambiamento in grado di generare nuovi valori e nuove competenze. All’interno di un tale contesto il coronavirus può rappresentare un acceleratore ma lavoratori e aziende non devono essere lasciati soli in questa tempesta bensì accompagnati verso nuovi obiettivi, valori e modelli comportamentali. In altri termini, la transizione allo smart working deve essere monitorata, guidata, indirizzata attraverso un processo pluralistico e partecipato in cui va valorizzato il ruolo dei corpi intermedi più coraggiosi: le associazioni d’impresa, i sindacati, i fondi interprofessionali, le università, le scuole di formazione e le società di consulenza che dovranno lavorare in modo sinergico.

Quello che faremo adesso sarà decisivo per la ripartenza, che diventerà il campo d’azione di chi avrà il coraggio di cambiare davvero. Più che di rifondazione del futuro del lavoro su base innovativa, bisogna infatti parlare di riprogettazione del lavoro immaginando soluzioni che diano sicurezza all’economia reale, senza lasciare indietro nessuno. Le aziende si sono scoperte vulnerabili in questa crisi e anche per le norme sulle distanze nei luoghi di lavoro saranno invogliate ad accelerare i loro processi di innovazione, automazione e utilizzo delle tecnologie 4.0.

Così si mette in campo al più presto una rete nazionale per l’innovazione, e un gigantesco piano di reskilling dei lavoratori, o saranno guai. E la disoccupazione che ne scaturirà non sarà colpa della tecnologia, ma dell’ennesimo appuntamento mancato con la storia dei gruppi dirigenti italiani, molto spesso eccessivamente conservatori dei loro status quo e per questo incapaci di giocare d’anticipo.



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