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Ecco la tenuta etica che prepara il futuro. La riflessione di D’Ambrosio

Mi hanno sempre colpito, in questi giorni, alcune affermazioni di medici e infermieri come: “Prima di entrare in corsia mi tremano le gambe, ma poi, una volta entrata/o mi passa tutto – spesso credo di non farcela ma poi riesco a portare a termine il mio turno – anche se siamo stanche/i morti ci aiutiamo sostituendoci quando c’è bisogno, per andare incontro a una/un collega in difficoltà” e così via. L’immagine emblema della infermiera che si addormenta sulla tastiera del computer dice tantissime cose. Ci dice che non esiste solo una tenuta fisica (di malati, personale sanitario, dei cittadini nel gestire le misure restrittive) o una tenuta sociale e politica di istituzioni, leader e gente comune: esiste anche una “tenuta etica”. Il primo passo per comprenderla è quello di far sparire dal nostro vocabolario la parola “eroe”. Eroi/eroine sono “in genere o dèi decaduti alla condizione umana per il prevalere di altre divinità, o uomini ascesi a divinità in virtù di particolarissimi meriti” (Treccani). Le loro caratteristiche poco umane e il loro operato con caratteri eccezionali, ci portano, anche non volendo, a considerare queste persone fuori e al di là degli standard normali, come una eccezione che conferma una regola, come esempi non quotidiani ma una tantum.

Ricordiamo anche il famoso dialogo di Galileo, per la penna di Bertold Brecht: “Infelice è la terra che non produce eroi, esclama Andrea. E Galileo gli risponde: No, infelice è la terra che ha bisogno di eroi”. Gramsci direbbe che gli eroi entrano in campo quando le organizzazioni sono “indebolite” e gli eserciti “infiacchiti”; mentre Weber invitava ad usare in maniera molto sobria la parola “eroe”. Infatti gli stessi intervistati spesso la rifiutano e parlano del proprio operato come “dovere”, “servizio”, “dedizione” ecc. Se ci liberiamo dalle trappole che il termine contiene si può aprire una discussione, attuale e necessaria, sulla tenuta etica nella crisi del Covid-19 e nel dopo crisi. In generale le crisi fanno emergere il meglio di noi o, in altri casi, il peggio; questo perché le crisi svelano chi siamo veramente, il tessuto etico di cui sono fatte le nostre relazioni familiari, amicali, sociali, politiche, economiche, globali. Non a caso stiamo riparlando, in questi giorni, di reati che potrebbero tragicamente aumentare come violenze domestiche, peculato, truffe, corruzione, usura, estorsioni ecc. Ma, al tempo stesso, stiamo apprezzando quante persone perbene ci sono nel nostro Paese e quanto bene fanno agli altri. Manchiamo ancora, ovviamente, di ricerche statistiche e sociologiche che potrebbero illuminarci in materia, per cui mi baso su osservazioni nient’affatto esaustive.

Cosa intendo per “tenuta etica”? Condividendo il presupposto che “l’etica è il nostro modo di stare al mondo” (S. Natoli), per “tenuta etica” intendo la fedeltà ai principi etici fatti propri, non come una forma di perfezione (ammesso che esista), ma come una coerenza che mantiene un suo standard, a prescindere dalle situazioni contingenti, personali e sociali, e dalle occasioni di devianza etica che si propongono al soggetto. In termini sintetici non parliamo di un superuomo o superdonna, ma di una persona, che, nonostante i suoi limiti ed errori (chiaramente non gravi), non si discosta da un via etica “maestra” che ha scelto, fatta sua e che segue costantemente.

Scriveva Emanuel Mounier nel 1935: “Non sono le istituzioni che fanno l’uomo nuovo, bensì un lavoro personale e insostituibile dell’uomo su sé stesso. Le istituzioni nuove possono facilitargli il compito, ma non sostituirsi al suo sforzo. Le stesse facilitazioni che esse gli procurano, se egli non è sostenuto da una forza spirituale e intima, possono condurlo indifferentemente sia all’apatia che a un rinnovamento”.

Spesso, negli ultimi mesi, ci siamo chiesti spesso o almeno augurato che tutto dopo non sia come prima. Superando l’evidente rischio retorico di questa affermazione, non va negato che, in diversi casi, il nuovo non può essere delegato alle istituzioni o ad una nuova tornata elettorale o, per chi crede, a un intervento divino straordinario. Mounier è molto chiaro in materia: anche se le istituzioni dovessero dare il meglio di sé “facilitando il compito” a un nuovo che avanza, senza il “lavoro personale” si rischia di cadere in un’apatia personale e sociale. Sono apatiche, infatti, tutte quelle affermazioni rassegnate e negative: “non cambierà niente – sarà tutto come prima o peggio – non c’è crisi che possa cambiare gli atteggiamenti umani” e cosi via.

Apatico è chi non ha pathos, cioè passione: mi riferisco alla passione per ciò che è giusto e vero, solidale e accogliente, corretto e nobile, buono e costruttivo. Esiste questa passione? Tiene alla crisi? Penso che la domanda, per il loro insostituibile e prezioso ruolo, andrebbe fatta a tutti coloro che sono “operai della mente”, direbbe Toniolo, cioè genitori, educatori, docenti, leader delle religioni, giornalisti, intellettuali, artisti. Faccio mio il rimprovero di Tonino Bello: “Ce l’ho con voi, uomini della cultura, che intuite il precipitare delle cose, ma siete lenti. Avete coscienza che stiamo vivendo la notte di un grande «passaggio», ma vi attardate a lasciar fermentare la pasta nella madia. Percepite il passaggio dell’angelo sterminatore, ma ve la prendete con calma. Distinguete meglio degli altri il clamore degli oppressi, ma ne rallentate l’avventura di liberazione. E invece che accelerare l’esodo verso la terra promessa con accenti profetici, ne frenate la corsa con le vostre prudenze notarili”.

Se ripensiamo al rinnovamento sociale e politico avvenuto nel secondo dopoguerra, alla tenuta etica di tanti durante il buio nefasto del fascismo e della guerra, come potremmo negare il lavoro prezioso, certosino, profondo di tutti quegli “operai della mente” che hanno preparato il futuro ascoltando, dialogando e insegnando a molti? La tenuta etica non si inventa, si trasmette, con l’insegnamento e l’esempio: Aristotele direbbe che ogni virtù è frutto sia di conoscenza che di pratica. Le crisi cambiano solo nella misura in cui c’è questo lavoro educativo, soprattutto autoeducativo nel caso degli adulti.

Un uomo che nella sua vita si è formato e ha formato, tenendo eticamente, anche nei momenti più drammatici – mi riferisco ad Aldo Moro – scriveva nel 1944: “Ora dobbiamo percorrere una lunga e difficile strada: dobbiamo appunto ricostruire… Chi ha da fare della politica attiva, la faccia, con la stessa semplicità di cuore con la quale si fa ogni lavoro quotidiano… E nessuno pretenda di fare più o meglio di questo. Perché questo è veramente amare la Patria e l’umanità”.



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