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Covid-19, il virus che può innescare il regime change in Iran. Scrive Giulio Terzi

È ormai sempre più ferma la pretesa, da parte del regime iraniano, che gli Stati Uniti revochino le sanzioni economiche verso Teheran. Gli Ayatollah tentano di camuffare le vere motivazioni con il fabbisogno per affrontare l’emergenza Covid-19, cercando (trovandole!) sponde favorevoli soprattutto in Europa ma anche negli stessi Usa, tra i rappresentanti delle due Camere.

C’è però da chiarire quale “mistero” abbia portato il regime a rifiutare gli aiuti umanitari del presidente Donald Trump – corredato dalle accuse dell’ayatollah Ali Khamenei sull’origine “americana” del virus – oppure a bocciare l’iniziativa di Medici Senza Frontiere per l’invio di un ospedale da campo a Esfahan con medici e specialisti, con la motivazione che “l’Iran non ha bisogno di ospedali stranieri” e conseguente espulsione di Msf dal Paese. Vale la pena di ricordare che le sanzioni escludono già tutti gli aiuti umanitari. Si tratta, quindi, di un pretesto che il regime è stato pronto a utilizzare, ben conoscendo la cedevolezza di cui molti europei e americani hanno già dato prova in passato, per mantenere il pieno funzionamento dell’apparato di regime.

L’Iran, nonostante la sua cultura ricca, civile e aperta, è diventato uno Stato paria.  Il regime teocratico e fascista, appare più impegnato nell’abuso dei diritti umani e l’esportazione del terrore, mentre 80 milioni di iraniani allo stremo, oltre la metà dei quali hanno meno di 30 anni, lottano per sfamare le loro famiglie in un contesto di interruzioni di corrente, carenze idriche e prezzi dei prodotti alimentari che sono aumentati di oltre il 60% e un bilancio delle vittime del coronavirus fuori da ogni controllo.

Oggi la Repubblica islamica si trova ad affrontare un vero e proprio collasso sociale, sotto i colpi di una dittatura teocratica corrotta, un’economia in via di disintegrazione e un tentativo estremamente confuso di affrontare la pandemia di Coronavirus. Il regime dei mullah ha ormai perso il controllo degli andamenti economici e ha perso il controllo sulla salute pubblica. È il risultato di 41 anni di appropriazioni indebite da parte delle élite della ricchezze nazionali, dalla rivoluzione del 1979, sperperando miliardi per l’esportazione del terrore e sul finanziamento di proxy in tutta la regione, spendendo miliardi nel programma nucleare militare, arricchendo i propri conti bancari privati.

Dal momento che non vi è alcuna prospettiva di un accordo con gli ayatollah, l’unica politica praticabile e sostenibile per gli Stati Uniti è quella di favorire il cambio di regime. Considerate le vulnerabilità interne alla teocrazia, Washington può ancora ritagliarsi un ruolo considerevole nell’indebolire il potere del regime.

Le immagini delle oceaniche manifestazioni antiregime organizzate dal Movimento verde del 2009 sono sempre vive, quelle che l’allora capo dei Pasdaran, Mohammad Ali Jafari, definì “ai limiti del rovesciamento” del regime. Negli ultimi due anni, l’intensità delle proteste contro la gestione fallimentare delle “riforme” che avrebbero dovuto portare il Paese lontano dall’isolamento dei decenni precedenti e a un rilancio del benessere sociale, hanno raggiunto un livello mai visto prima, sia per l’estensione che per numero di partecipanti in tutto l’Iran, ma purtroppo anche per l’azione di dura repressione messa in atto dalle Guardie della rivoluzione, anche con l’impiego di munizioni letali nei confronti dei manifestanti.

Rispetto al passato, le odierne proteste sembrano rappresentare una minaccia molto più grande per la tenuta della teocrazia iraniana, in quanto espressione della rivolta delle classi lavoratrici, studenti e, per la prima volta, dei ceti più poveri, che fino ad allora erano il bacino più ampio di consensi.

Tale legame si è indebolito a causa del collasso economico dell’Iran. L’inflazione e la disoccupazione sono alle stelle. Le esportazioni di petrolio, che erano a 2,5 milioni di barili al giorno prima della reimposizione delle sanzioni statunitensi del 2018, sono ora scese a soli 248.000 barili al giorno. Ciò ha costretto il regime a ridurre i sussidi per l’acquisto di carburante, come raccontato dal New York Times, mentre la perdita di entrate petrolifere ha reso difficile per lo Stato far fronte ai propri obblighi pensionistici e mantenere i programmi di alloggi a prezzi accessibili. Con lo stato sociale sotto pressione, gli appelli al sacrificio da parte dei mullah “corrotti” cadono nel vuoto. “Ayatollah con capitale, restituiscici i nostri soldi!” è stato uno degli slogan di protesta più diffuso. Ma le espressioni utilizzate sono andate oltre il mero aspetto economico del malcontento. Nel dicembre 2017, per esempio, dopo l’impennata dei prezzi dei beni di base, i manifestanti nelle principali città hanno apertamente inneggiato alla “Morte a Khamenei!”. Lo scorso novembre, un improvviso aumento dei prezzi del carburante ha provocato rivolte in centinaia di città; circa 1.500 persone sono morte per mano della polizia e delle forze di sicurezza. I manifestanti hanno ampliato il raggio di protesta condannando il coinvolgimento dell’Iran nei conflitti in Medio Oriente “Non Gaza, non il Libano, la mia vita per l’Iran!”. 

A gennaio, dopo l’attacco dei droni statunitensi che ha ucciso il generale Qassem Soleimani, enormi folle di persone in lutto hanno riempito le strade delle città iraniane e molti, all’interno del regime, hanno creduto fosse il segnale di un Paese ricompattato contro il nemico di sempre. Poche settimane dopo, tuttavia, l’illusione è stata spezzata dalle proteste in tutto il Paese quando il governo ha ammesso, dopo giorni di smentite ufficiali, che le difese aeree iraniane – in allerta per le incursioni statunitensi – avevano accidentalmente abbattuto un aereo di linea ucraino in partenza dall’aeroporto di Teheran, uccidendo 176 persone. Da ultimo, la diffusione pandemica del Covid-19. Il regime non solo non è stato in grado di salvaguardare la salute e la sicurezza dei suoi cittadini, ma ne ha aggravato la portata impedendo la diffusione di informazioni e nascondendo la reale entità della tragedia, un ulteriore impulso al malcontento popolare.

L’obiettivo di un cambio di regime sebbene non preveda particolari costi per l’Occidente, richiederà senz’altro un intenso programma di intelligence per supportare quegli elementi, all’interno della società civile iraniana, che contestano la legittimità del regime. Tra questi è agevole pensare alle organizzazioni di categoria, come i sindacati dei lavoratori e degli insegnanti, che hanno scioperato per protestare contro le politiche e le azioni del governo, e gruppi di studenti, che hanno organizzato proteste nei campus universitari. Continue sono le lettere di denuncia, da parte di riformisti epurati, dei tremendi abusi perpetrati dal regime soprattutto dopo le manifestazioni. Lo scorso novembre, dagli arresti domiciliari, il leader del Movimento verde Mir Hossein Mousavi ha dichiarato sul sito web kaleme.com che la condotta del regime riporta alla mente un famigerato massacro condotto dalle truppe dello Scià nel settembre 1978. Mohammad Khatami, che il regime ha cercato di mettere a tacere, ha denunciato la repressione scrivendo su Instagram che “nessun governo ha il diritto di ricorrere alla forza e alla repressione per affrontare le proteste”. Questi potenti messaggi sono stati ampiamente riportati dai media internazionali e rilanciati sui social media, purtroppo a questa campagna di informazione fanno eccezione l’Italia e i suoi media mainstream.

È sicuramente difficile immaginare che tutti gli iraniani abbiano avuto accesso a questi appelli, poiché il governo blocca continuamente Internet, quindi appare essenziale che l’Occidente si mobiliti per fornire un aiuto concreto per aggirare le censure di regime che colpiscono le opposizioni.

Aiutare i dissidenti all’interno dell’Iran, tuttavia, è solo metà della battaglia. Per allentare la presa del regime sul Paese e aprire una breccia nell’assolutismo degli Ayatollah occorre un’azione ancora più incisiva e condivisa da tutto l’Occidente nel solco della “massima pressione” statunitense sull’economia iraniana che, è doveroso ricordare, in tutti i settori strategici è controllata dal Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica. In tale contesto, da anni il think tank americano United Against a Nuclear Iran (UANI) sta portando avanti una campagna per identificare società gestite o controllate dai Pasdaran. Dalla fine della guerra Iran-Iraq, le Guardie rivoluzionarie hanno assunto un ruolo dominante nell’economia iraniana controllando gran parte dei settori petrolchimico, bancario, delle costruzioni e delle telecomunicazioni in Iran. A titolo di esempio, sono ben noti i legami a doppio filo tra la National Iranian Oil Company e i Pasdaran.

Voci critiche dell’amministrazione Trump hanno rapidamente respinto il piano, insistendo sull’inefficacia delle sanzioni unilaterali, senza però tenere conto della volontà delle aziende straniere di non compromettere la loro capacità di fare affari negli Stati Uniti. Anche se i governi dei loro Paesi d’origine non prevedono alcun regime sanzionatorio verso il regime iraniano, o addirittura promuovono strumenti finanziari alternativi come l’Instex, aziende molto rilevanti la società energetica francese Total, il conglomerato manifatturiero tedesco Siemens e il colosso marittimo danese Maersk sono rimasti fuori dall’Iran per evitare le sanzioni di Washington.

Anche nella regione iniziano a registrarsi sempre meno velati malcontenti circa un’ingerenza ormai insopportabile del regime degli ayatollah. In Iraq negli ultimi mesi, le persone sono scese in piazza in gran numero per protestare contro l’influenza eccessiva di Teheran. L’indignazione nei confronti dell’Iran ha anche guidato le recenti proteste in Libano, dove molti sono stufi di Hezbollah, sia della milizia che del gruppo politico finanziato in tutti i suoi aspetti da Teheran.

Da quarant’anni la teocrazia iraniana pratica il terrorismo quale strumento essenziale e integrante della propria strategia di eliminazione di qualsiasi forma di dissidenza interna e esterna al Paese. Dal 2001 a oggi ha dimostrato di poter superare, nel promuovere il terrorismo, qualsiasi barriera confessionale e di saper sostenere attivamente anche le organizzazioni Jihadiste a matrice sunnita, come Al Qaeda, Hamas, Jihad Islamica, oltre all’attività terroristica a proiezione globale che fa capo a Hezbollah e all’Irgc. Era stato proprio nel bel mezzo del “risveglio” sciita che l’America di Barack Obama si era mostrata rinunciataria e cedevole in Siria – forse per incoraggiare Teheran a sottoscrivere il Jcpoa – ma ciò non era di certo servito a rallentare l’espansionismo regionale dell’Iran, il suo programma nucleare e missilistico.

Per contro, con l’eliminazione a inizio gennaio del generale Soleimani e del capo delle operazioni Abu Mehdi Mohandes a Baghdad, oltre che assestare un duro colpo al regime, gli Stati Uniti di Donald Trump hanno voluto dimostrare come la deterrenza e la lotta al terrorismo internazionale proseguano senza tentennamenti. Soleimani era da tempo nella lista dei più pericolosi terroristi inclusi nella lista del dipartimento di Stato. Comandava il Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica e la Qods Force, responsabile delle operazioni fuori dall’Iran. Rispondeva direttamente alla Guida Suprema. Era considerato l’uomo più potente e influente del regime, e il maggior responsabile probabilmente – subito dopo Khamenei – dei suoi numerosi e gravissimi crimini. Creando l’Irgc, Khomeini aveva non solo messo a disposizione del proprio sistema di potere una sorta di moderna Gestapo, ma otteneva un vasto controllo sulle risorse e l’economia del Paese. Soleimani ne aveva preso le redini potenziandone rapidamente le capacità di colpire attraverso il terrorismo, il sostegno a milizie proxy all’estero, la repressione nel sangue di ogni opposizione interna.

In Iran il ritorno degli Stati Uniti a una politica di deterrenza ha colto Bruxelles impreparata, evidenziando come le difficoltà europee nella regione sono dovute ad una visione diametralmente opposta a quella degli Stati Uniti. Il più grande limite dell’Unione europea è non avere capito cos’è l’Iran teocratico e fascista di oggi, un’enorme minaccia alla sicurezza regionale e globale. Lo è innanzitutto attraverso la proliferazione nucleare, perché non c’è dubbio che per molti anni è esistito – e probabilmente continua a esistere – un programma nucleare segreto che non è stato fermato definitivamente come avrebbe dovuto dall’accordo del 2015.

Un accordo dal quale gli Stati Uniti si sono ritirati a buona ragione sotto l’amministrazione Trump. Questo perché gli Usa hanno una lettura della pericolosità iraniana che è completamente diversa da quella nel Vecchio continente. L’Europa vede nell’Iran un Paese riformista che si è evoluto con Rouhani, mentre l’amministrazione Trump lo considera – a buona ragione – un Paese violento, accentratore e autoritario, che non solo massacra il proprio popolo ma cerca anche di destabilizzare i Paesi vicini finché non riesce a dominarli, come sta accadendo in Iraq.

In tale ottica, Washington dovrebbe incoraggiare anche altri Paesi della regione – come Israele, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti – a cooperare allo sviluppo di sistemi condivisi di allerta precoce e difese contro i missili cruise e missili balistici a medio raggio che l’Iran probabilmente schiererebbe in qualsiasi conflitto con i suoi vicini. Passi come questi indebolirebbero ulteriormente il regime iraniano annullando la minaccia di dominio militare nella regione, neutralizzando gli ingenti investimenti militari iraniani, che hanno minato il benessere e la sicurezza del proprio popolo.

È giunto quindi il momento per il popolo iraniano di immaginare la propria vita libera dal giogo dei mullah. Con un governo eletto democraticamente che ristabilisca le libertà fondamentali; la giustizia; i diritti umani; i diritti delle donne; i diritti delle minoranze. Con una politica estera non più aggressiva, che ponga fine alla sponsorizzazione del terrorismo internazionale e all’ingerenza negli scenari vicini tramite proxy e il ritiro definitivo dalla corsa per il conseguimento “clandestino” di armamenti nucleari.

L’Iran possiede le seconde riserve di gas naturale più grandi del mondo e le quarte di greggio. La combinazione di sanzioni e il crollo dei prezzi del petrolio a causa della pandemia ha portato la più grande industria iraniana a profondo shock. Ma quando il lockdown che ha interessato tutto il mondo terminerà, è facile immaginare che i prezzi del petrolio e del gas saliranno di nuovo. Un Iran che avrà deposto gli ayatollah, ripristinata la democrazia e che quindi vedrà le sanzioni revocate si troverebbe senz’altro in una posizione privilegiata per beneficiare di questa rinascita.

L’Europa, e soprattutto l’Italia, in questo auspicabile scenario dovrà necessariamente abbandonare l’attuale atteggiamento di ambiguità – per non rimanere poi isolata – e unirsi al contrasto di quelle minacce che stanno pregiudicando la stabilità, non solo dell’area mediorientale ma anche quella internazionale. È più che mai, quindi, necessario il ricompattamento di quel blocco euro-atlantico che ha contribuito alla diffusione del principio di centralità delle libertà e dello Stato di diritto, alla base di ogni società democratica, e anche per arginare le preoccupazioni rappresentate dall’espansione delle altre “storiche” potenze revisioniste.

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