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A vent’anni da Timor Est. Il ricordo del Gen. Arpino sulla “missione più lontana”

Il dibattito sulla strategia per le missioni internazionali, che purtroppo si anima solo una volta l’anno in occasione del loro finanziamento, oggi è soprattutto concentrato sull’attualità di Afghanistan, Iraq e Libano, senza però trascurare Libia, Balcani, Corno d’Africa e Niger.

STRATEGIE E INTERESSE NAZIONALE

Qui casca l’asino, perché una prima difficoltà, almeno per noi, è individuare con chiarezza quale sia questo interesse. A noi difficilmente qualcuno dice “Italy first”. O magari lo dice, ma poi il governo successivo cambia idea. Si era cercato di preparare come guida un bel Libro Bianco, ma il disinteresse politico ha portato al fallimento del nobile tentativo.

Eppure, se è vero che con le missioni internazionali si tratta anche di consolidare l’immagine del nostro Paese, l’interesse nazionale non può limitarsi a petrolio, gas e migranti. Occorre lavorare su concetti più ampi, senza per questo pretendere di convertire tutto il mondo alla democrazia o all’osservanza di sacrosanti (per noi) principi universali. Però, per mantenere alta la bandiera della nostra cultura, a volte, può essere necessario intervenire selettivamente anche senza un immediato ritorno materiale.

È già accaduto. Lo stiamo facendo ancora oggi (speriamo per poco) nella nostra missione più lunga, in Afghanistan. Ma l’avevamo fatto anche vent’anni orsono nella nostra missione più corta e lontana: cinque mesi a Timor Est. Se in Afghanistan il possibile ritorno economico è pari a zero e quello di sicurezza discutibile, va onestamente riconosciuto che a Timor Est entrambi erano sicuramente pari a zero. Ma, a livello internazionale, il ritorno di immagine e di prestigio è stato notevole. Basti qui richiamare le parole pronunciate dal generale australiano comandante della missione nello stringere la mano al comandante italiano: “Se in futuro dovesse venirmi nuovamente assegnata una missione di questo impegno, per prima cosa chiederei di poter disporre dei soldati italiani”.

LA MISSIONE A TIMOR EST

Come Desert Storm, ormai è una della missioni dimenticate, quindi un breve richiamo è utile e farà piacere a chi ha partecipato. Nel quadro degli accordi firmati a New York all’inizio di maggio 1999 tra Indonesia, Portogallo e Onu per risolvere il contenzioso di Timor Est, con la risoluzione n. 1236 veniva stabilito che la missione civile Unamet gestisse il referendum per l’indipendenza della porzione di territorio a maggioranza cristiana. Il 30 agosto il risultato evidenziava che oltre il 78% della popolazione era a favore dell’indipendenza. Tuttavia, sotto gli occhi di un’inerte polizia indonesiana, una minoranza islamica anti-indipendentista lo stesso giorno iniziava a metter a ferro e fuoco l’enclave, provocando oltre duemila morti e più di 200mila profughi.

Il vescovo Carlos Felipe Ximenes Belo, premio Nobel per la pace, riusciva a raggiungere Lisbona e Roma, dove illustrava la situazione a Giovanni Paolo II e al cardinale Jean-Louis Tauran. Il 15 settembre il Consiglio di sicurezza votava la risoluzione n. 1264, autorizzando la costituzione di una forza multinazionale per Timor Est. Nasceva così Interfet, comandata dal generale australiano Peter Cosgrove, la cui avanguardia di 4.500 uomini già cinque giorni dopo cominciava lo sbarco a Dili, la capitale. Partecipavano a vario titolo una ventina di nazioni, tra le quali Gran Bretagna, Francia e Svezia. Infine, assente l’Ue, d’iniziativa aderisce anche l’Italia.

TEMPI STRETTI PER LO SCHIERAMENTO E LUNGHI PER L’APPROVAZIONE

Quando, il 23 settembre 1999, il vicepresidente del Consiglio Sergio Mattarella, a nome del governo D’Alema, dava al Parlamento l’informativa urgente circa la decisione, i primi militari italiani erano già partiti. Ciononostante, il Parlamento formalizzerà la decisione solo il 22 dicembre 1999. L’ordine di pianificare con sollecitudine e avviare le attività esecutive era arrivato al capo di Stato maggiore della Difesa direttamente dal ministro della Difesa Carlo Scognamiglio già il 15 settembre. Il nuovo Comando operativo interforze (Coi), grazie all’esperienza maturata per Albania e Kosovo dal suo primo comandante, il generale Giuseppe Orofino, varava in tempi da record una missione assai complessa, da supportare logisticamente a 16mila chilometri dalla madrepatria.

“Stabilize” (questo il nome della missione italiana) era formata da 250 uomini della Folgore, 40 carabinieri paracadutisti del Tuscania, nave San Giusto con quattro elicotteri e i Consubin, i trasporti aerei dell’Aeronautica, che lasciava schierati a Darwin due G-222 per i voli giornalieri da e per Timor Est. Allora non si parlava di Coronavirus, ma ciascun militare aveva in tasca il suo bravo certificato di vaccinazione contro la febbre Dengue, che notoriamente imperversava nell’area. La durata, al comando del neo promosso generale di brigata Giorgio Cornacchione, un alpino tutto d’un pezzo, coprirà il periodo dal 22 settembre 1999 al 17 febbraio 2000. Infine, il 27 marzo 2000 il presidente Carlo Azelio Ciampi, accompagnato dal ministro della Difesa e dal capo di Stato maggiore della Difesa, a bordo di nave S. Giusto, ancorata per l’occasione a Livorno, saluterà il rientro di tutte le componenti del contingente.

QUALE STRATEGIA?

L’11 gennaio 2000 una nota rivista italiana di geopolitica così intestava il pezzo sulla missione Stabilize: “Siamo a Timor Est per amor di Chiesa”. Titolo forse un po’ di colore, ma indubbiamente la visita di monsignor Belo in Vaticano aveva in qualche modo influenzato le decisioni del nostro governo, con l’effetto collaterale di aggiungere qualcosa di importante al concetto di interesse nazionale. Questo è il motivo per cui rimandiamo i lettori più volonterosi al testo del resoconto stenografico della sopra citata ”informativa urgente” al Parlamento del vice presidente del Consiglio (sten. 588 s 150 del 23 sett. 1999, disponibile sul web), stralciandone qui solo le frasi più significative:

“La decisione riveste un’estrema rilevanza per il nostro Paese e per l’intera comunità internazionale. Non siamo determinati a intervenire a Timor Est per difendere egoistici interessi nazionali; non vantiamo a Timor rilevanti interessi economici, né confini nazionali da difendere. (…) L’Italia interviene per affermare, vorrei dire, una nuova visione dell’interesse nazionale, fondata sulla convinzione che la tutela dei diritti umani rappresenti la strada maestra per garantire pace, stabilità e sviluppo in una fase delle relazioni internazionali, quella della globalizzazione, che impone di ridefinire il concetto stesso di sovranità nazionale”.

Quindi, non sempre e non solo petrolio alla base della strategia. È una corrente di pensiero importante che ancora oggi, vent’anni dopo Timor Est, contribuisce a fare dottrina.

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