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L’alternativa Usa alla Via della Seta c’è (ed è trasparente). Parla Dezenski (Fdd)

Attraverso la Via della Seta, “la Cina non esporta solo acciaio e cemento, ma anche corruzione, opacità e sprechi”. È la conclusione a cui arriva in un colloquio con Formiche.net Elaine K. Dezenski, membro del consiglio direttivo del Center on Economic and Financial Power della Foundation for Defense of Democracies di Washington, think tank che si occupa di sicurezza nazionale ed è spesso consultato, raccontano le cronache statunitensi, dal segretario di Stato Mike Pompeo. 

Dezenski, esperta di sicurezza con un lungo curriculum che include Forum economico mondiale e dipartimento per la Sicurezza interna degli Stati Uniti, ha dato poco pubblicato una monografia per la Foundation for Defense of Democracies dal titolo “Below the Belt and Roade dal sottotitolo eloquente “Corruption and illicit dealings in China’s global infrastructure”.

“La crisi da Covid-19 pone un’altra domanda sulla Cina: è onesta e trasparente?”, ci dice. Un interrogativo che vale per la questione sanitaria, certo. Ma che ci si deve porre anche quando si tratta degli investimenti di Pechino, uno dei tanti temi al centro della nuova strategia degli Stati Uniti verso la Cina pubblicato dall’amministrazione Trump nelle scorse ore e analizzato da Formiche.net. Un nuovo approccio che si può riassumere in poche parole: “Dopo 40 anni dall’apertura delle relazioni diplomatiche, la speranza che Pechino si aprisse al mondo è finita”.

Quando pensiamo al Mar cinese meridionale e alle mire espansionistiche cinesi nella regione, subito vengono alla mente le reazioni “negative” dei suoi vicini, nota  Dezenski. “Al contrario, la Via della seta ha dovuto affrontare poche resistenze”. Porti, ferrovie, ponti, strade e altre infrastrutture fondamentali in tutto il mondo in via di sviluppo: tutto questo è la Via della Seta, iniziativa lanciata dal presidente cinese Xi Jinping con il potenziale di “trasformare vite ed economie”, spiega l’esperta.

Ma non tutto è filato liscio. Anzi. Alcuni casi. In Malesia la corruzione ha generato a un sentimento anticinese e ha portato alla cacciata del primo ministro in carica e del suo partito. In Kenya, invece, funzionari kenioti e cinesi sono finiti sotto indagine e il debito è diventato ingestibile a causa di un progetto ferroviario che ha superato il budget e che non è mai stato completato. Per non parlare della “trappola del debito”. Spesso negli Stati Uniti, racconta Dezenski, si cita il caso dello Sri Lanka, che ha ceduto un porto strategico a Pechino in cambio della copertura del suo debito. Ma “un esame più attento rivela che lo Sri Lanka è stato un fiasco per Pechino. Gli elettori hanno cacciato gli alleati locali dei cinesi; l’infrastruttura si è rivelata inutile; e l’immagine globale della Cina ha sofferto di conseguenza”.

Citiamo a Dezenski il caso dell’Italia, che l’anno scorso ha siglato con la Cina il Memorandum sulla Via della Seta, e le chiediamo come mai nel documento non compaiano riferimenti al nostro Paese. “La ricerca analizza aree come l’Africa e il Sud Est asiatico in cui la Via della Seta è già in piena funzione”, spiega. Zone in cui, aggiunge, “la corruzione ha già avuto il tempo di venire a galla”.

Ma le difficoltà registrate da Pechino, nota l’esperta, offrono un’opportunità agli Stati Unito, dove “è sempre più forte il consenso bipartisan sulla minaccia cinese”. La proposta di Dezenski è il rafforzamento della US International Development Finance Corporation, un’agenzia nata nel 2018 con un forte sostegno sia da parte dei repubblicani sia dei democratici. Approccio responsabile agli investimenti esteri, rafforzamento della leadership statunitense e governance più trasparenti e aperti: è questa la sua ricetta. Ci sono stati casi (e Dezenski cita Iraq e Afghanistan) in cui gli investimenti statunitensi hanno rafforzato cleptocrati e minato la stabilità. “Ma ciò non può fermarci, serve trovare nuovi strade per il cambiamento. Una è un’alternativa trasparente alla Via della Seta. Cioè, la US International Development Finance Corporation e in particolare il cosiddetto Blue Dot Network, strumenti destinati soprattutto ad Africa e Sud Est asiatico, messi in piedi dall’attuale amministrazione ma che, visto il consenso bipartisan sulla Cina citato in precedenza, “difficilmente Joe Biden cancellerebbe” se diventasse presidente, aggiunge Dezenski. Il dividendo più prezioso di un’operazione simile, ben oltre le infrastrutture? La fiducia delle popolazioni per una gestione trasparente, dice l’esperta, sottolineando un’altra volta l’opacità cinese.

Ci sono, infine, due domande che rimangono senza risposta dopo la lettura della monografia di Dezenski (che, come detto, è pubblicata dalla Foundation for Defense of Democracies, think tank molto vicino ai neocon repubblicani e anche al segretario Pompeo). La prima: il documento rappresenta anche un avvenimento ai partner tentati dalla Via della Seta (o che su quella strada già sono rimasti sedotti)? La seconda: si tratta di un manuale sulla questione cinese in vista di un possibile secondo mandato del presidente Donald Trump?


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